È martedì mattina del 10 dicembre e a Milano, all’ingresso dello storico Centro Sociale Leoncavallo, si sta tenendo un presidio in attesa che l’ufficiale giudiziario ufficializzi la procedura di sfratto dello spazio occupato. Intorno alle 11, però, Daniele Farina – rappresentante del centro sociale ed ex esponente di Rifondazione Comunista – prende la parola e informa i presenti che la procedura è stata rinviata al 24 gennaio. “Un ringraziamento va a tutti voi perché la vostra presenza ha impedito l’utilizzo della forza pubblica che l’ufficiale giudiziario cercava e che la proprietà voleva”. E prosegue: “Questo è l’inizio di un nuovo percorso. Prima del 24, dovremo riunirci in assemblea pubblica perché siamo tutti coinvolti”. Per la nuova data si vocifera sia prevista la presenza delle forze dell’ordine.

In via Watteau, nel quartiere Greco, sono centinaia le persone che hanno risposto all’appello lanciato diverse settimane fa. “Dal 1975 occupato, abbattuto, ricostruito, sgomberato, viandante, ricollocato: di nuovo il futuro del Leoncavallo barcolla. Un lungo percorso di lotta politica, rivendicazione di spazi di socialità informale, autogestione e cultura critica radicale rischia di essere interrotto” si legge sulla pagina ufficiale del centro sociale. Tra i presenti, molti degli esponenti dei collettivi che lo animano. Ci sono i ragazzi di Lobo Sound, di Cantiere e le storiche rappresentanti dell’Associazione Mamma antifasciste, gruppo che gestisce l’occupazione. “Sono presenti anche rappresentanti di realtà che in anni passati mai si sarebbero mostrate solidali – precisa Farina – come la Camera del lavoro”.

A seguito della decisione del Tribunale civile di Milano di condannare il Viminale a risarcire la famiglia Cabassi – proprietaria dell’immobile -, negli ultimi giorni la questione è salita agli onori delle cronache e i collettivi hanno iniziato a mobilitarsi. Nello stand allestito dall’organizzazione all’ingresso dello spazio, libri che raccontano la storia del centro sociale e una tavola imbandita con biscotti e caffè caldo. L’aria che si respira è distesa, i volti sono familiari. “Non posso immaginare un futuro senza questo spazio” dice uno dei manifestanti a ilfattoquotidiano.it. E prosegue: “Ho 42 anni, sono di Milano e questo posto racchiude la mia adolescenza. È cambiato molto negli anni ma sono sempre più convinto che la procedura di sfratto sia legata a interessi specifici che la famiglia Cabassi sta cercando di perseguire. È un periodo d’oro questo per gli appalti con il Comune della città”.

Il 9 ottobre, la Corte d’Appello ha condannato il ministero dell’Interno a pagare un risarcimento di 3 milioni di euro alla società L’Orologio srl del gruppo Cabassi, proprietaria dell’ex cartiera che si estende su una superficie di 12mila metri quadri, occupata dal 1995. La procedura di sgombero ebbe inizio nel 2003 ma non fu mai portata a termine “per questioni di ordine pubblico”. Secondo la Corte d’Appello, però, “l’ordine pubblico non può giustificare la mancata esecuzione del provvedimento giurisdizionale” perché altrimenti questo caso potrebbe fare da apripista per altri casi analoghi che riguardano l’occupazione abusiva di immobili privati. È per questo che, secondo i giudici, la mancata applicazione per oltre 18 anni dello sgombero è da imputare al Viminale.

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