Nelle ore in cui Assad atterrava a Mosca, ricevendo asilo per motivi umanitari, a una trentina di chilometri da Damasco migliaia di persone si accalcavano fuori dal carcere di Sednaya, da cui nei 50 anni del regime sono passate 150mila persone, soprattutto oppositori. Quelli in fila erano tutti parenti di persone rinchiuse: speravano di rivedere i loro cari, di riabbracciarli dopo una detenzione fatta di silenzi e torture. Circolavano anche voci di tre piani sotterranei sigillati dalle guardie del regime, ma erano solo fantasie (c’era un solo piano sotterraneo) alimentate dal desiderio di rivedere chi ormai era solo un ricordo, ha spiegato al Fatto Jaber Baker, scrittore siriano che nel “mattatoio” – chiamato così per le brutalità e le torture commesse anche contro migliaia di civili arrestati solo perché oppositori del regime – è stato detenuto per due anni sotto Assad padre. Di certo c’erano loculi, tunnel, celle dai pavimenti ricoperti di stracci ed escrementi. E molta oscurità.

Ora i caschi bianchi, la protezione civile nata durante la guerra civile e vicina ai ribelli, hanno confermato che a Sednaya sono finite le ricerche e non sono stati trovati altri detenuti. “La ricerca non ha portato alla luce alcuna area non aperta o nascosta all’interno della struttura”, ha reso noto l’organizzazione, precisando di aver completato una ricerca sistematica del vasto complesso, cercando celle segrete, scantinati nascosti e controllando i cortili e le aree circostanti della prigione, dopo che gli insorti entrati domenica all’alba a Damasco hanno aperto i cancelli del carcere. Cinque squadre, tra cui due unità cinofile della polizia K9, sono state coinvolte nella ricerca di ingressi, uscite, pozzi di ventilazione, sistemi fognari, tubature dell’acqua, telecamere di sorveglianza. Nonostante gli sforzi, non sono state individuate aree nascoste o sigillate. “Condividiamo la profonda delusione delle famiglie delle migliaia di persone ancora disperse e il cui destino rimane sconosciuto”, hanno dichiarato i Caschi Bianchi. Le immagini circolate sui media hanno mostrato decine di uomini e donne che lasciavano il luogo di detenzione zoppicando, con fatica. Domenica la fila di auto si estendeva per più di sette chilometri e la sera le famiglie hanno acceso falò davanti alla prigione. “Sto aspettando nella speranza che uno dei miei cari venga ritrovato”, aveva dichiarato Youssef Matar, 25 anni, che come centinaia di altre persone sperava in un miracolo.

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