“Morii dentro quando mi fecero urinare sui cadaveri ammassati in bagno”. Ogni volta che portava la sua testimonianza, anche a Milano, Mazen al Humada partiva sempre da quel dettaglio. Ma la morte, questa volta fisica, l’ha trovata nelle ore precedenti al crollo del regime. Il corpo dell’attivista siriano è stato trovato fra i cadaveri di un gruppo di prigionieri, rinchiusi nel carcere di Sednaya, giustiziati dalle guardie carcerarie nelle ore precedenti al crollo della dittatura durata mezzo secolo.

Mazen al Humada era morto in carcere due volte. La prima volta a Damasco, nel 2013. “Un amico nei servizi aveva avvisato mio fratello che il mio destino era segnato. Mi sarebbero venuti a prendere a casa a Deir Al Zor. Allora sono fuggito nella capitale”. Dove, raccontava fiero a Ilfattoquotidiano.it nel marzo del 2017, prima di partecipare a una conferenza a Milano, “mi sono dato però da fare per aiutare la popolazione raccogliendo aiuti umanitari. Dopo poco, mi contatta una dottoressa dei sobborghi che ha bisogno di latte”. In quell’occasione, Mazen interruppe il racconto ed uscì dal locale a fumare. “Devo fumare una sigaretta. Fumo due pacchetti al giorno”. Seduti in un locale dei navigli lo aspettammo, circondati dai pochi clienti che guardavano distratti la partita di calcio.

Quando ritornò all’interno del ristorante aveva le lacrime agli occhi. “L’appuntamento era in una caffetteria. Ho portato i miei due nipoti. Avevamo il latte in polvere nascosto in due valigie. L’abbiamo consegnato e la dottoressa ci ha ringraziati. Poco dopo sono entrati gli uomini dei servizi e ci hanno arrestati”. Mazen si alzò e con il corpo mimò il momento in cui gli uomini dei servizi lo fecero entrare nel bagagliaio della macchina: seduto a terra, si mise in posizione fetale e le gambe strette al petto.

Ma la tortura peggiore è stata quando “mi hanno stretto i genitali e mi hanno sodomizzato con una staffa di ferro”, raccontava mentre pareva rivivere quel momento, “doloroso e umiliante”. E poi cambiò discorso, raccontando della tortura del bagno. Sempre piegati sulle ginocchia, mani sulla nuca e sguardo basso “ci facevano uscire due volte al giorno, ogni dodici ore, per andare in bagno a gruppi di dieci o venti. Avevamo un minuto, non di più: pena la morte. Ma fuori dalla cella, ad attenderci, c’erano due ali di uomini della sicurezza con spranghe e dovevamo passare in mezzo per dirigerci ai gabinetti. Ci colpivano. Chi cascava veniva soccorso dagli altri o lasciato a morire”. La morte è qualcosa a cui Mazen si era abituato. Infatti “morivano almeno due persone al giorno dall’asfissia e le condizioni igieniche nella cella. A turno, dovevo tirare fuori i corpi e gettarli nell’angolo della spazzatura. Noi, ci dicevano i carcerieri, valevamo meno di quei rifiuti”.

Un giorno il capo del carcere fece visita alle celle: “Quando tocca alla nostra tutti si alzano, io no. Non riuscivo a mettermi dritto a causa delle ferite e dei dolori della tortura”. L’ufficiale guardò Mazen, gli chiese perché non si metteva sull’attenti come gli altri detenuti in segno di rispetto. “Gli ho risposto che ero ferito a causa delle botte, delle bastonate. Non lo avessi mai fatto”. Dopo l’ospedale, Mazen fu riportato in cella. Processato, venne liberato dopo un anno e sette mesi. “Ma io sono ancora lì – precisa – il corpo è qui. Ma io no”.

Rifugiatosi nei Paesi Bassi, Mazen cominciò a girare l’Europa e il mondo portando in giro la sua testimonianza. Con pochi mezzi, senza l’assistenza finanziaria e psicologica necessaria, l’attivista riuscì a denunciare il dramma della tortura. Ma il protrarsi della solitudine, in un Paese straniero, con una guerra che sembrava volgere in favore di Assad e di una normalizzazione dei rapporti, spinsero Mazen, secondo le ricostruzioni, a fidarsi di persone vicine agli ambienti dell’ambasciata siriana a Berlino che gli avrebbero promesso nel 2021 l’amnistia in cambio del silenzio. A bordo di un volo, Mazen guardava fuori dal finestrino osservando la Siria sotto di lui. Atterrato all’aeroporto di Damasco, l’ex detenuto sarebbe stato prelevato dai servizi segreti e da quel momento inghiottito nel nulla. Fino a ieri, fino alla sua seconda morte. Foto sui social media mostrano il volto di Mazen e quello del suo presunto cadavere. Ma ormai sembra certo, scrive la nipote sui social, che “quello sia lui: addio zio”.

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“Bimbi picchiati e detenuti ammazzati: noi sepolti vivi tra gli escrementi nella prigione di Sednaya, il mattatoio di Assad”

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