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Siria, l’Esercito nazionale è il principale problema della nuova rivoluzione. L’altro è Israele

Contrariamente a quanto sembra trapelare da alcune narrazioni, i festeggiamenti per la caduta del regime di Assad non sono espressione del jihadismo, ma di una larga parte della popolazione del paese, al suo interno molto diversificata. Tra i primi ad arrivare nella capitale sono stati i combattenti di Liwa al-Jabal, esercito popolare druso che durante la guerra aveva spesso sostenuto il regime contro i gruppi islamisti sunniti. Assieme ad esso è arrivato il “Fronte sud” delle milizie addestrate in Giordania dalla CIA, che per lo più non condividono le posizioni dei gruppi salafiti. Questi ultimi, d’altra parte, sono divisi e contrapposti tra Tahrir as-Sham, che ha un ruolo politico predominante, e il cosiddetto “Esercito nazionale” diretto dalla Turchia.

Quest’ultimo, oltre ad aver commesso crimini contro profughi e civili e tentato saccheggi nella provincia di Aleppo (prevenuti dai residenti dei quartieri con l’aiuto di Tahrir as-Sham o, in altre zone, delle Unità di protezione curde Ypg), si è finora disinteressato della vicenda nazionale per concentrarsi a nord-est sull’unico obiettivo che interessi la Turchia: lo smantellamento dell’Amministrazione democratica autonoma frutto di un esperimento di partecipazione diretta in gran parte animato da donne (che i media continuano erroneamente a ridurre alla dimensione “etnica” curda, quando è ormai in gran parte protetto e promosso da arabi).

Proprio in queste ore l’Esercito nazionale sta rovinando il clima di festeggiamento e riconciliazione nel paese reiterando sanguinosi attacchi contro una città siriana dell’Amministrazione, Manbij, contestualmente bombardata dalla Turchia con decine di vittime civili. Manbij è stata liberata da Daesh da una coalizione arabo-curda nel 2016, le Forze siriane democratiche (Sdf). La componente delle Sdf che ha difeso con grande coraggio l’area dagli attacchi dell’Esercito nazionale e dai crimini di guerra da esso commessi (tra cui l’esecuzione sommaria, filmata, dei feriti negli ospedali) è il Consiglio militare di Manbij, per lo più composto da residenti arabi della zona.

Non si tratta quindi né di uno scontro settario né etnico, ma di uno scontro politico di cui non si sentirebbe il bisogno. Un’esperienza siriana di autogoverno attaccata da forze che agiscono, servilmente, nell’esclusivo interesse di una potenza esterna. Le Sdf potevano contare fino a pochi giorni fa sull’interposizione di soldati russi in quelle aree, che però si sono ritirati oggi dal loro ultimo avamposto a Kobane. Gli Stati Uniti hanno affermato che non interverranno a Manbij perché oltre la linea di intervento concordata precedentemente con la Russia, che è l’Eufrate. È anche probabile che la nuova amministrazione Trump, una volta insediata, ritiri le truppe americane dal paese.

L’Esercito nazionale siriano, che è quindi poco siriano e poco nazionale, è al momento il principale problema della nuova rivoluzione iniziata domenica con l’esilio del presidente. L’altro problema è Israele. Netanyahu ha mostrato per l’ennesima volta il suo disprezzo per il diritto internazionale allargando la sua presenza lungo le Alture del Golan occupate dal 1967, già condannata da diverse risoluzioni delle Nazioni Unite e bombardando a tappeto nella notte tutte le infrastrutture aeroportuali del paese. L’aviazione israeliana ha colpito anche siti tecnologici, dimostrando di considerare la vicenda siriana un contesto in cui intervenire nei prossimi mesi per i propri esclusivi interessi ed anzi, come ha cinicamente affermato il premier di Tel Aviv, una “opportunità”.

Le Forze siriane democratiche hanno lanciato un appello a tutte le parti, e alla Turchia stessa, per raggiungere accordi di coesistenza. Dopo 14 anni di guerra e con la caduta del regime un paese plurale, moderno e diversificato come la Siria merita una pace vera. Le siriane e i siriani devono poter convivere in un orizzonte democratico da loro stessi definito col dialogo, e le iniziative economiche e politiche dal basso devono essere difese e rafforzate per evitare nuove dinamiche autoritarie, o di verticalizzazione e centralizzazione delle istituzioni statali. Questo prevede una capacità di confronto e riconciliazione tra forze tra loro molto distanti, come il Congresso siriano democratico promosso dalle Sdf, d’impronta multireligiosa, e diretto da componenti secolari (ma non fanaticamente secolariste), e Tahrir as-Sham, che considera le donne incapaci di personalità giuridica autonoma, e fino a due anni fa non era neanche in grado di garantire il diritto di culto ai cristiani di Idlib.

Nonostante Tahrir as-Sham e le Sdf siano emanazione di esperienze opposte, le due leadership si sono parlate per evitare uno scontro diretto in queste due settimane. Entrambe vedono, con accenti molto diversi, come una minaccia a una transizione ordinata le pratiche eterodirette dell’Esercito “nazionale” siro-turco nel governatorato di Aleppo. Quest’ultimo potrà giocare la carta dei suoi legami con la Coalizione nazionale siriana, un organo egemonizzato dai Fratelli musulmani e da fedelissimi di Erdogan, riconosciuto come “legittimo rappresentante degli interessi del popolo siriano” fin dal 2012 da molti paesi arabi e occidentali, inclusa purtroppo l’Italia (riconoscimento che dovrebbe essere ritirato, se non altro perché superato dagli eventi). Le Forze siriane democratiche, dal canto loro, non hanno rapporti ostili con il Fronte Sud o con gli insorti drusi di Al-Suwaida, e sono considerate un attore importante non soltanto dalla debole amministrazione democratica uscente, ma anche dalla Russia.

L’improvvisa nomina a primo ministro di Muhammad Al-Bashir, fedelissimo di Tahrir as-Sham, al posto del premier uscente Al-Jalali, lascia intravedere un approccio unilaterale che non annuncia molto di buono. Fino a prova contraria, tuttavia, un esito nazionale basato sul dialogo è l’unico auspicabile.