La catena della Resistenza perde il suo "anello dorato", così i flussi di uomini e armi della Mezzaluna sciita rischiano di rimanere bloccati
“La Siria è l’anello dorato della catena di Resistenza regionale. Senza la Siria questa catena si spezzerà e la resistenza contro Israele ne uscirà indebolita”. In questi termini parlava, ormai dieci anni fa, Ali Akbar Velayati, politico e accademico iraniano, a lungo principale consigliere di politica estera della Guida suprema della Repubblica islamica dell’Iran, Ali […]
“La Siria è l’anello dorato della catena di Resistenza regionale. Senza la Siria questa catena si spezzerà e la resistenza contro Israele ne uscirà indebolita”. In questi termini parlava, ormai dieci anni fa, Ali Akbar Velayati, politico e accademico iraniano, a lungo principale consigliere di politica estera della Guida suprema della Repubblica islamica dell’Iran, Ali Khamenei. Erano i mesi appena precedenti alla brutale e inesorabile riconquista di tre quarti della Siria da parte di Bashar al-Assad, con il sostegno decisivo dell’aviazione russa a partire dal 2015, che si aggiungeva a quello di una fanteria in larga parte guidata dagli stessi iraniani e da Hezbollah.
Di lì a poco, il cosiddetto Asse della Resistenza a guida iraniana avrebbe raggiunto forse il suo picco di popolarità e solidità. Emerso dall’equazione di matrice antagonista che l’Iran ha iniziato a costruire sin dagli Anni 80 in opposizione a Israele, opponendovi così una qualche forma di deterrenza esercitata da una miriade di milizie ideologicamente affini disseminate per la regione che accentuassero la profondità strategica iraniana, l’Asse attorno al 2016 sembrava veder maturare una serie di dividendi. Hezbollah, il movimento libanese che nel corso di 40 anni ha goduto dei finanziamenti più ingenti da parte dell’Iran, era divenuto in quegli anni il più strutturato movimento di guerriglia al mondo, appena emerso vittorioso da alcune battaglie proprio in Siria – che avevano permesso al regime di riprendere il controllo di aree perdute – e manteneva le sue posizioni nei confronti di Israele costruendo una rete di tunnel sotterranei che rafforzavano la sua imprevedibilità e le sue capacità di guerra asimmetrica. Assad stesso sembrava appunto aver ripreso il controllo di gran parte della Siria, a vantaggio dell’Iran e dei suoi traffici verso il Libano. Le milizie irachene si moltiplicavano, somigliando una per una sempre più allo stesso Hezbollah, e sotto il coordinamento del generale delle IRGC, Qassem Suleimani, colpivano le truppe americane in Iraq, spesso usando ordigni prodotti in Iran. Gli Houthi, in Yemen, con mezzi limitati riuscivano a resistere a una intensa campagna di bombardamenti della coalizione guidata dall’Arabia Saudita, costringendola ad uno stallo.
Nell’arco di questi ultimi mesi, però, tutto ciò sembra profondamente cambiato: Israele ha decapitato la leadership di Hezbollah, interrotto la catena di rifornimenti e ne ha ridotto le capacità militari, secondo analisti israeliani dell’80%; le milizie irachene hanno declinato l’invito di Teheran a combattere l’avanzata dei ribelli adducendo anche il rischio di una “trappola israeliana“, cioè il rischio che Tel Aviv bombardasse i loro battaglioni una volta entrati in Siria; gli Houthi continuano a porre una minaccia concreta alle navi petrolifere e commerciali che passano a largo di Hodeida, ma l’intensità e la frequenza dei loro strikes sembra diminuita; Bashar Al Assad, infine, ha lasciato la Siria in direzione Mosca nel corso della notte precedente alla presa di Damasco da parte dei ribelli di Hayat Tahrir Al Sham. Non c’è dubbio che dal punto di vista strategico, al momento, l’Iran sia il principale sconfitto in questo anno di sconvolgimenti regionali.
L’ascesa di Hayat Tahrir al Sham in Siria non sarebbe stata possibile in un contesto diverso da quello creatosi a fine novembre, cioè all’indomani del cessate il fuoco in Libano tra Hezbollah e Israele, e in una congiuntura che vede la Russia impegnata in Ucraina e l’Iran disimpegnarsi gradualmente dalla stessa Siria. Come ricorda il Council of Foreign Relations, Teheran già a inizio 2020, dopo l’assassinio del generale Qassem Soleimani, aveva ritirato gran parte dei suoi militari dalla Siria, avendo commesso anche l’errore valutativo di considerare la situazione stabilizzata. Il loro posto era stato preso proprio dai comandanti di Hezbollah, su cui Damasco e la stessa Teheran contavano in caso di una recrudescenza del conflitto. Tuttavia gli sviluppi bellici in Libano hanno costretto il Partito di Dio a richiamare gran parte dei suoi uomini in patria. Nel frattempo, sin da ottobre 2023, l’aviazione israeliana ha condotto più di 70 bombardamenti in Siria. Quando gli uomini di Abu Muhammad Al Julani si stavano avvicinando a Homs – città fondamentale in Siria perché collega Damasco con la costa, storica roccaforte degli Assad – Hezbollah avrebbe provato a inviare circa 2mila uomini che sono stati bombardati da Israele. E con loro il valico di frontiera di Al Arida.
L’opinione comune è che Israele abbia guadagnato dalla caduta di Assad e questo in molti sensi è vero, specie per quel che riguarda gli obiettivi più immediati di Tel Aviv, cioè interrompere quel “corridoio iraniano” che dall’Iraq passava appunto per la Siria e da lì in Libano, collegando Hezbollah, il regime e le milizie siriane, le milizie irachene e la Repubblica islamica. Questo corridoio terrestre, appunto, oggi non esiste quasi più e allo stato attuale l’Iran per arrivare via terra in Libano dovrebbe esplorare rotte molto più settentrionali, esponendosi al monitoraggio israeliano – specie nelle zone governate dai curdi – e alle stesse truppe statunitensi. Se l’Iran è il principale nemico di Israele e se l’Iran considerava la Siria “l’anello dorato” della sua catena di antagonismo, è evidente come sia stato privato di risorse fondamentali perdendo profondità strategica.
È però vero anche un altro aspetto, evidenziato da Herb Keinon sul Jerusalem Post. Lo scenario ideale, per Israele, è una Siria debole e prevedibile. Assad era per molti versi il nemico ideale: al di là della (sporadica) retorica, era appunto un leader alla mercé dei suoi “padrini” russi e iraniani e soprattutto impossibilitato a rispondere ai migliaia di bombardamenti israeliani su suolo siriano negli ultimi 10 anni (sui quali probabilmente Israele aveva un’intesa con la Russia). Questa debolezza accentuava anche la sua prevedibilità: una Siria governata da un leader debole e delegittimato forniva ad Israele la pressoché totale certezza che non fosse in grado di nuocere in alcun modo. Ciò aveva anche un’altra conseguenza, che Tel Aviv e Washington stavano cercando di sfruttare, nell’ambito della graduale riammissione di Assad nella Lega Araba e del riavvicinamento con alcuni governi europei, ansiosi di affrontare la questione dei rifugiati. In questo senso andavano letti i rinnovati rapporti tra Damasco e gli Emirati Arabi Uniti, che nei mesi scorsi avevano proposto ad Assad di tagliare i ponti con l’Iran in cambio di una serie di incentivi, primo tra tutti la rimozione delle sanzioni. Questo canale ora si è ovviamente chiuso. Il rovesciamento di Assad, in luogo del suo mero indebolimento, non può che produrre uno scenario incerto, in primis per gli stessi siriani, ma anche per Israele che persegue l’indebolimento dei suoi vicini in funzione della loro corruttibilità: augurarsi o stimolare un caos interno che ne mini l’indipendenza e gli spazi di manovra ma non un caos che sia sinonimo di imprevedibilità dei suoi leaders. Come certamente sono quelli di Hts.