Musica

Simon Boccanegra all’Opera di Roma: la direzione di Michele Mariotti è ben più di una garanzia

Nelle mie recensioni agli eventi della stagione passata del Teatro dell’Opera sono stato spesso severo con le trasposizioni eccessivamente “moderne” dei classici, sempre sottolineando che il punto non era ancorarsi a una fedeltà pedissequa alle rappresentazioni convenzionali, bensì imporre scelte arbitrarie e del tutto svincolate dal senso originale dei personaggi. Ben vengano versioni “nuove”, ma fedeli al senso del testo, rispettose non della forma esteriore, ma del significato profondo dell’opera.

A conferma dell’onestà del mio assunto, dichiaro il mio apprezzamento per l’intelligente versione del Simon Boccanegra di Giuseppe Verdi, recentemente in scena al Costanzi per la regia di Richard Jones come spettacolo inaugurale della stagione 2024/25, intitolata “Volti del Potere”. Dal punto di vista squisitamente musicale, da tempo abbiamo finito le parole per ribadire quanto la direzione di Michele Mariotti sia ben più di una garanzia: appassionante, travolgente, capace di declinare la conduzione in maniera sottile e versatile a seconda del respiro delle diverse opere.

Bravo Luca Salsi, abile nell’esprimere il tormento del protagonista più nel canto sicuro che nella fluidità attoriale, commovente Eleonora Buratto (un’Amelia dolente quanto fiera), Michele Pertusi e Stefan Pop convincenti nel loro ruolo speculare (il primo interpreta il nobile Jacopo Fiesco, la cui volontà di vendetta si muta in contrito perdono, il secondo il coraggioso Gabriele Adorno, la cui gioia nuziale è turbata dal dolore finale); personaggi entrambi vittime dell’equivoco che è alla base del plot, in verità piuttosto ingenuo, come da karma librettistico verdiano: musica dal grandissimo spessore drammatico al servizio di nodi tragici in alcuni casi inverosimili, in altri piuttosto semplici da sciogliere (basterebbe che i personaggi si parlassero e l’opera durerebbe il tempo di un brano pop, ma il melodramma è il melodramma!).

E qui veniamo alla specificità dell’opera, così complessa e di non immediato clamore nel celebrato canone verdiano: come ampiamente illustrato nel sempre ben curato libretto di scena, Simon Boccanegra ha avuto una gestazione ben più che travagliata, prima di giungere alla versione che conosciamo oggi. L’opera debuttò nel 1857 al Teatro La Fenice di Venezia su libretto di Francesco Maria Piave (quello dello storico Ernani, il cui successo lo rese poeta ufficiale del teatro veneziano). Più di vent’anni dopo, Verdi rimise pesantemente mano alla partitura e fece operare modifiche importanti ad Arrigo Boito (che di lì a poco avrebbe scritto i celebri libretti verdiani di Otello e Falstaff). L’opera tornerà in scena nel marzo del 1881 alla Scala di Milano.

Come scrive Daniele Spini, nella sezione critica del citato libretto di scena: “Le differenze fra i due Boccanegra sono notevoli, e dal confronto esce una supremazia indubbia del secondo. C’è tutta l’arte sottile dell’ultimo Verdi, gestore di un suono strumentale che si fa esso stesso teatro, di un’armonia sempre più sofisticata e drammaticamente efficace, di una vocalità plasmata sulla parola, di un’intuizione minuziosa dei tempi narrativi”. Parole esatte che rendono tutto il valore di un’opera non facile, non perfetta, ma in grado di donare improvvisi slanci melodici in arie commoventi, all’interno di un costante, variegato tumulto musicale e narrativo di svolte, contrasti, colpi di scena, rinnegamenti e plateali agnizioni. Come notato anche da Michele Mariotti nell’intervista ufficiale, è evidente, soprattutto all’inizio, il richiamo a De Chirico nelle scelte scenografiche della regia di Richard Jones. Una scelta solo apparentemente peregrina: in questo modo, la vicenda particulare (in senso guicciardiniano) di un doge trecentesco a Genova assurge, su un palco “metafisico”, a correlativo oggettivo dei grandi temi melodrammatici: la dialettica infame del Potere che schiaccia in un dualismo accecante gli aspetti più nobili del Potere. Probabilmente, non è un caso che l’opera verrà ripresa dal Verdi maturo, negli anni in cui si dedicherà, nuovamente, alla traduzione in musica dei grandi drammi shakespeariani.

Chiudiamo con una considerazione “futuristica” e concettualmente contrastante: non vediamo l’ora di vedere Michele Mariotti, la prossima stagione, alle prese con il Lohengrin di Richard Wagner. Sarà una sfida straordinaria, ma confidiamo che verrà vinta da par suo.