La schiena ricominciò a dolergli; da qualche parte, in profondità, era fredda e insensibile. Aveva già preso una volta l’epatite. Mentre se ne stava seduto sul letto, con i pantaloni calati sugli stinchi, a pensare come sarebbe stato beccarsi due volte l’epatite, sentì una serie di colpi secchi alla porta che riconobbe con orrore: era il Richiamo per Fannulloni. Si tirò su i pantaloni e aspettò che i colpi si ripetessero; quando successe, andò in bagno e aprì il rubinetto della doccia, giusto per fare un po’ di rumore.
Una sala di specchi, di Robert Stone (traduzione di Dante Impieri; Minimum Fax), è, dal mio punto di vista, un autentico capolavoro letterario, capace di raccontare l’America e chi la abita attraverso il punto di vista degli emarginati, di chi, generalmente, non è illuminato dalle luci della ribalta. Con uno stile che richiama il John Dos Passos de Manhattan Transfer e le pagine più livide e cruente de Last Exit to Brooklyn di Hubert Selby Jr., Stone racconta la vita di tre personaggi le cui vite si incrociano a New Orleans alla fine del Mardi Gras del 1962.
A una cerimonia, nella quale aveva consegnato un trofeo al vincitore del torneo di macchine da corsa di Emoryville, il giudice Horace St. Saens della contea di Bracque, candidato governatore, aveva spiegato che il fatto che si fosse riferito ai neri come «gorilla dalla testa riccia» e «congolesi stuprasuore» non significava che odiasse i neri o che fosse razzista. Con gli occhi lucidi, aveva parlato del suo amore per tutte quelle anime antiche e fedeli, anzi aveva detto che soltanto la vista di quelle anime antiche e fedeli gli faceva venire un groppo in gola. Alla fine del discorso, un’anima antica e fedele era stata fatta salire sul palco a stringere la mano del giudice mentre il pubblico aveva intonato spontaneamente i versi di «Dixie». Tutti i presenti erano stati poi molto soddisfatti dall’epilogo, quando il giovane vincitore del trofeo si era rivelato una ragazzina di quindici anni senza nemmeno la patente.
La trama de Una sala di specchi è, in verità, importante fino a un certo punto. Ignorando volutamente paradigmi letterari, suddivisioni geometriche della scaletta, equilibri di nodi narrativi e climax, Robert Stone si sofferma sui comportamenti imprevedibili e complessi dei suoi personaggi. Le descrizioni dell’ambiente (così come fatto magistralmente anche in Dog Soldiers; traduzione di Dante Impieri, Minimum Fax) aggiunge una vivida rappresentazione della storia. Una storia brutale, cinica e divertente, dove la concretezza della vita e le allucinazioni mentali dei protagonisti si amalgamano in modo straordinario conferendo allo stile dell’autore newyorkese un’originalità invidiabile.
Il privato sfocia nel pubblico, nel romanzo, così come la vita sociale collettiva hanno implicazioni nelle decisioni (e nelle non-decisioni) dei singoli. Un libro di non redenzione, critico verso il sistema mainstream, capace di gettare le basi per una delle carriere letterarie più interessanti e riuscite del panorama statunitense contemporaneo.
E il nome di Gesù svanì in un urlo che si smarrì tra i corridoi. Rheinhardt posò i piedi sulla moquette e si mise a tastare freneticamente nel buio in cerca di una luce. Quando l’ebbe trovata e accesa, la prima cosa che vide fu il suo volto, pallido e rilassato, nello specchio. Alzandosi, coperto di sudore e maleodorante, terrorizzato dal proprio riflesso, sentì dei passi nel corridoio, passi lenti, di un vecchio che passava davanti alla sua porta; poi la voce del vecchio, carica di una stanchezza infinita e priva di empatia, cantò: «Sì, sì… Vecchio pazzo». Poi tornò il silenzio. Rheinhardt si vestì più in fretta che poté, senza lavarsi, bevve tutto il bourbon che riuscì a mandar giù e uscì attraversando la strada, diretto al cinema.