di Giacomo Gabellini*
Dal punto di vista israeliano, il collasso della Repubblica Araba Siriana rappresenta un successo cruciale, trattandosi dell’ultima espressione del nazionalismo arabo rimasta dopo il crollo della Jamahiriya libica del 2011. Al pari degli altri movimenti “apparentati” sorti in Egitto, Libia, Palestina e Iraq, il Baath siriano – guidato fino a pochi giorni fa da Bashar al-Assad e tra il 1971 e il 2000 da suo padre Hafiz – si era distinto per l’elaborazione di una dottrina irredentista di stampo laico ma sostanzialmente svincolata dai canoni del marxismo-leninismo, e basata sul rifiuto sia della logica bipolare della Guerra Fredda, sia del fondamentalismo islamista radicatosi in Paesi come l’Arabia Saudita.
Conformemente alla loro visione pan-araba di ispirazione genericamente “socialista”, queste forze identificavano Israele come l’ultimo rimasuglio del colonialismo europeo, incistatosi nel cuore del Levante per prevenire l’unificazione o quantomeno il compattamento del mondo arabo.
A loro volta, le classi dirigenti di Tel Aviv hanno compreso fin dall’inizio i rischi colossali di carattere ideologico e geostrategico posti dall’affermazione del nazionalismo arabo, puntualmente bollato come nemico esistenziale da abbattere. Le guerre del 1948, 1967, 1973 e 1982 hanno condotto a un progressivo “addomesticamento” dell’Egitto e dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, mentre la guerra tra Iran e Iraq (1980-1988) si è risolta con un indebolimento strutturale del regime di Saddam Hussein, a cui Israele contribuì con la distruzione del reattore nucleare di Osiraq e con l’attiva partecipazione nell’affaire Iran-Contras messo in piedi dagli Stati Uniti per rifornire segretamente di armi la neonata Repubblica Islamica.
Tra il 1991 e il 2003, gli Stati Uniti hanno invaso per ben due volte l’Iraq per regolare definitivamente i conti con il Baath locale, conformemente alle forti pressioni di Israele e di strateghi neoconservatori dotati molto spesso di doppia cittadinanza (statunitense e israeliana) che figurano nell’elenco degli autori di un memorandum cruciale intitolato Clean break: a new strategy for securing the realm.
L’allineamento delle politiche statunitensi alle direttive del governo di Tel Aviv appariva talmente evidente da insinuare il sospetto, scriveva il quotidiano Haaretz nel 2002, che un numero assai rilevante di politici e funzionari di Washington stesse “camminando lungo la linea sottile che separa la lealtà al governo degli Stati Uniti dagli interessi israeliani”.
Nel Clean break si definivano le modalità operative per promuovere la balcanizzazione del Medio Oriente, già indicata nel febbraio del 1982 come obiettivo cruciale per Tel Aviv da un analista molto addentro agli “apparati” israeliani come Oded Yinon e giunta ormai a maturazione con il cedimento repentino e fragoroso della Siria baathista. Un evento che interrompe la continuità territoriale del cosiddetto Asse della Resistenza rendendo molto più complesso per l’Iran garantire regolare approvvigionamento a Hezbollah, con cui il governo di Tel Aviv aveva concordato una tregua dettata dalla necessità avvertita da Israele di ricostituire le scorte di munizioni e mitigare il processo di logoramento del proprio dispositivo militare.
La disintegrazione delle strutture amministrative e l’arrendevolezza dell’esercito hanno aperto una finestra di opportunità che Netanyahu ha colto con la consueta spregiudicatezza. Mentre le forze armate siriane si squagliavano letteralmente di fronte all’offensiva guidata da Hayat Tahrir al-Sham, gruppo jihadista supportato dalla Turchia che ha oggettivamente beneficiato dell’intensificazione dei raid aerei israeliani sulla Siria operata da Israele tra ottobre e novembre, l’aeronautica e la marina israeliane lanciavano una devastante campagna di bombardamento contro le strutture militari siriane per prevenire una loro possibile cattura ad opera di forze “ostili”.
L’Israeli Defense Force ha parlato di oltre 480 attacchi, che avrebbero portato alla distruzione del 70-80% delle risorse militari strategiche siriane da Damasco a Latakia, tra cui aerei, radar e siti di difesa aerea, navi militari e depositi di armi e munizioni.
Allo stesso tempo, le forze armate israeliane oltrepassavano la linea di demarcazione stabilita nel 1974 ricavandosi un’ampia zona-cuscinetto, tra proteste generalizzate puntualmente ignorate da Netanyahu, il quale ha dichiarato che le alture del Golan rimarranno parte integrante di Israele “per l’eternità”. Il ministro degli Esteri israeliano Israel Katz ha rimarcato la “provvisorietà” dello sconfinamento israeliano, senza indicare tuttavia alcun orizzonte temporale previsto per la smobilitazione.
Significativamente, negli stessi giorni sono comparse sulla stampa israeliana riflessioni che possono risultare utili a prevedere le prossime mosse di Tel Aviv. Il Times of Israel ha infatti pubblicato un editoriale a firma di Dan Ehrlich in cui si sosteneva apertamente la necessità di ricavare un Lebensraum sufficientemente ampio da sostenere la crescita della popolazione israeliana, che secondo le proiezioni dovrebbe raggiungere gli 11,1 milioni entro il 2030, i 13,2 milioni entro il 2040 e i 15,2 milioni entro il 2048.
Nel pezzo, poi rimosso dal sito del quotidiano presumibilmente per effetto degli inquietanti parallelismi suscitati con la strumentalizzazione del concetto di Lebensraum ad opera del regime nazista, l’autore poneva l’accento sull’eccessiva esiguità della massa terrestre disponibile rispetto alle tendenze demografiche della popolazione che la abita. E adombrava pertanto l’incorporazione di Giudea e Samaria (cioè della Cisgiordania) come possibile soluzione al problema.
La situazione di caos venutasi a determinare in Siria potrebbe verosimilmente indurre il governo di Tel Aviv a espandere le mire annessionistiche israeliane anche sulle aree meridionali del Paese. Forse, non limitatamente alle alture del Golan.