Non la scelta più facile, forse l’unica che gli è rimasta. Quando sembrava ormai costretto a doversi rimangiare la promessa di nominare un primo ministro prima delle 13, Emmanuel Macron ha fatto uscire un comunicato di poche righe. François Bayrou, alleato della prima ora e centrista leader dei MoDem, ha ricevuto l’incarico di formare il quarto esecutivo dell’anno e di farlo nel bel mezzo di una crisi politica senza precedenti in Francia. La scelta ha sorpreso un po’ tutti perché è arrivata dopo un’ora e quaranticinque di confronto “teso” all’Eliseo: alla fine del colloquio, proprio dall’entourage del presidente, erano uscite indiscrezioni che parlavano di scontro tra i due, poi rilanciate da le Monde. Un faccia a faccia “durissimo” durante il quale, fanno sapere, Bayrou sarebbe arrivato a minacciare di lasciare l’alleanza se la sua nomina fosse saltata. Alla fine, “l’uomo del compromesso”, come già viene definito in Francia, l’ha spuntata. Ora si apre la fase più complessa: trovare una maggioranza relativa che eviti la sfiducia e che gli permetta di durare il più a lungo possibile.
L’unica salvezza? Un “patto di non sfiducia” – L’impresa, sulla carta, è ai limiti dell’impossibile. Ma proprio il fallimento del governo Barnier, crollato dopo appena due mesi, ha lasciato una traccia e creato un precedente. Almeno è chiaro quello che il nuovo esecutivo non potrà fare: contare solo sul supporto esterno dell’estrema destra. La strategia che viene evocata negli ultimi giorni è quella di lavorare a un patto di “non censura”: costruire un accordo che sia il più trasversale possibile e che permetta di andare avanti, costruendo accordi dentro l’Assemblée Nationale sulle singole proposte. I primi a far sentire la loro voce, non a caso, sono stati quelli del Rassemblement National: “Non ci sarà alcuna sfiducia a priori”, ha detto il leader Jordan Bardella a Bfmtv.
Ma gli occhi ora sono puntati a sinistra perché è da lì che servono nuovi sostegni per fare in modo che l’esecutivo duri il più possibile. Come previsto, gli unici ad avere chiuso a priori sono gli esponenti de la France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon. Ma del resto l’asse del Nuovo fronte popolare si è già rotto, quando tutte le forze dell’alleanza (tranne gli Insoumis) sono andati al tavolo convocato da Macron. Ora scelgono la prudenza. Il leader comunista Fabien Roussel ha definito la nomina “una brutta notizia”. Ma non ha parlato di sfiducia: “Bayrou si ostinerà a voler imporre una politica che ha fallito e che è stata sanzionata?”, ha scritto su X. “Noi chiediamo un cambiamento di direzione politica, il rispetto del Parlamento e un governo che non metta la fiducia” per far passare le leggi. I Socialisti hanno detto “che non faranno parte dell’esecutivo e resteranno all’opposizione”. Ma hanno chiesto esplicitamente a Bayrou di rinunciare all’uso dell’articolo 49.3 della Costituzione (che permette di far passare le leggi senza avere l’approvazione del Parlamento) e loro, in cambio, non voteranno le sfiducie. Anche la segretaria degli Ecologisti, Marine Tondelier, si è allineata sulla stessa posizione, ribadendo di voler vedere “il tono delle politiche che presenterà”. Cosa può voler dire? Che se le proposte fossero verso sinistra, gli ostacoli potrebbero diminuire. La strada è molto stretta, ma esiste.
I numeri ora sono l’unica ossessione, anche se non serviranno per l’insediamento del governo (non è necessaria la fiducia per far partire l’esecutivo). Per il momento, alla Camera bassa può contare sicuramente solo sul sostegno della coalizione presidenziale: i 36 deputati del MoDem, i 93 di Ensemble e i 34 di Horizons. Perché passi una sfiducia serve il voto compatto di lepenisti e tutto il Nuovo fronte della sinistra: un asse che, al momento, mostra ben più di una crepa. E proprio tra quelle crepe può insinuarsi il nuovo governo.
Chi è Bayrou e “la spada di Damocle” dell’inchiesta sugli assistenti parlamentari – Bayrou è il quarto primo ministro dell’anno dopo Elisabeth Borne, Gabriel Attal, Michel Barnier. Le sue prime parole sono state di mediazione: “C’è un cammino da trovare” verso la “necessaria riconciliazione” del paese. “Tutti”, ha dichiarato Bayrou ai giornalisti uscendo dal suo ufficio, “possono vedere la difficoltà del compito. Tutti si dicono che c’è un cammino da trovare per riunire le persone invece di dividerle. Penso che la riconciliazione sia necessaria”. E allora perché Macron avrebbe puntato come ultima chance su di lui?
Innanzitutto perché espressione di quel centro a cui il capo dell’Eliseo cerca di far tornare tutti per riuscire a contrastare “gli estremi”. Bayrou è infatti presidente del Movimento Democratico (MoDem) dalla sua fondazione del 2017: in quello stesso anno, decise di non candidarsi alle presidenziali e in cambio sostenne la candidatura di Macron. Fu l’inizio di un’alleanza che dà ora i suoi frutti. E il suo profilo di centrista calza a pennello in questo momento perché, tra le altre cose, potrebbe essere digerito a sinistra. Ad esempio, nel 2012, decise di sostenere François Hollande al ballottaggio, invece di Nicolas Sarkozy (con il quale vanta una lunga ostilità e contro cui scrisse il libro “Abuso di potere”).
Bayrou ha una lunga esperienza istituzionale: è stato ministro dell’Istruzione dal 1993 al 1997 in tre governi consecutivi (per l’esecutivo Balladur e i due governi di Alain Juppé). Ma anche membro dell’Assemblea Nazionale dal 1986 al 2012, con brevi interruzioni, e parlamentare europeo dal 1999 al 2002. Dal 2014 è sindaco di Pau, città nel dipartimento dei Pirenei Occidentali.
Nel 2017, per ringraziarlo del supporto nella corsa all’Eliseo, Bayrou fu nominato da Macron ministro della Giustizia nel governo Édouard Philippe. A giugno di quello stesso anno però, è stato costretto a dimettersi dall’incarico in seguito a un’indagine preliminare sull’impiego fittizio di assistenti parlamentari da parte del MoDem: il caso ha coinvolto circa 11 imputati, tra cui il leader, e le accuse riguardavano il presunto uso illecito di fondi europei per pagare gli assistenti che in realtà lavoravano per il partito e per l’Udf (Unione per la democrazia francese). Questa è la spada di Damocle, come l’ha definita le Monde, che pende su di lui: è stata riconosciuta infatti l’appropriazione indebita, ma Bayrou è stato assolto a febbraio scorso per “insufficienza di prove” perché, ricostruisce sempre il quotidiano francese, non ci sono elementi per affermare che “fosse a conoscenza del fatto”. La procura ha fatto appello e potrebbe dover affrontare il processo mentre è primo ministro. Intanto, nel settembre 2020, Bayrou è stato nominato alto commissario per la pianificazione da Emmanuel Macron, un incarico strategico che gli ha permesso di fare ritorno sulla scena politica francese. Un ritorno che raggiunge il suo massimo con la nomina a primo ministro, strappata nonostante i dubbi e le titubanze. Con la speranza, per Bayrou (e Macron), che possa resistere almeno all’inverno.