Ancora un piccolo film. Ancora una storia semplice e accattivante, girata con la precisione di chi sa cosa vuole ottenere da ogni singola inquadratura. Solo per una notte del ginevrino Maxime Rappaz è il palesarsi di un bivio nella quotidianità di Claudine, una matura signora (Jeanne Balibar) di professione sartina che ogni martedì lascia la casa a valle con il figlio handicappato alle cure di un’anziana vicina e sale in treno verso le montagne. Una volta arrivata su in cima, sul bordo di una immensa diga, s’infila nell’asettico (e vero) albergo sottostante. Lì, complice un compiacente portiere abborda uomini di mezza età per portarseli in camera a fare sesso con lei. La regola è di corteggiare solo quelli che hanno prenotato una o al massimo due notti in hotel.
Il tran tran di Claudine, tutto albergo e sesso, figliolo da accudire e vestiti da cucire, continua per un po’ fino a quando è un bel signore (Thomas Sarbacher) in viaggio per lavoro a insistere lui per quella sfuggente copula. Da lì in avanti per Claudine nulla sarà più come prima. E l’insistenza del bel fotografo dei bacini idroelettrici per un rapporto che vuole andare ben oltre l’accoppiamento casuale concorrerà con il ruolo faticoso e ancestrale di madre.
Ambientato in un rigoroso, spoglio e lontano 1997, Solo per una notte evoca tempi meno ossessivi e claustrofobici dell’oggi. Niente smartphone, mail, gps, ma riviste di carta, telefoni fissi, possibilità di sparire per qualche ora, un pomeriggio, mezza giornata, senza poter essere visti o raggiunti. Il mistero della doppia vita di Claudine è però una sorta di falsa pista: piccante e liberatoria, corpi nudi di quasi sessantenni nella penombra dell’insistito peccato. Il vero dilemma esistenziale diventa invece quello tra il piacere erotico e l’autonomia del femminile con l’opposto suo annullamento per rimanere figura di riferimento presente e fisica per il figlio. La regia di Rappaz offre una raffinata dilatazione dei singoli istanti recitati in una ridda di vellutati campi e controcampi o a camera fissa frontale nella contemplazione della silenziosa protagonista solitaria. Il tutto posizionato con cura quasi astratta in una cornice naturale architettonica maestosa e impersonale.
L’incedere del racconto è racchiuso in un crescendo graduale ed impercettibile, ripulito da sensazionalismi melò, anche se i colpi di scena si susseguono mai banali. Insomma si tratta di una fattura formale da cinema intimista, per nulla urlato, sospinto verso dilemmi che appagano la carne ma che straziano la ragione. Balibar regala una performance singolare: mai troppo vamp nel dimostrarsi mantide, mai troppo opaca per diventare mamma coraggio. Il pendolo oscilla per oltre metà film e la fine, comunque, non è nota. Girato in apnea, con sequenze mozzafiato ed evocative attorno alla diga Grande Dixence, nel Valois, Sud della Svizzera. Distribuisce Wanted.