Una bordata alla Procura di Milano e a due magistrati, Piercamillo Davigo e Fabio De Pasquale, come argomento per promuovere la separazione delle carriere. Nel dibattito sulla riforma della giustizia ad Atreju, la festa di Fratelli d’Italia a Roma, il ministro Carlo Nordio cita la scarsa fiducia nella magistratura tra le ragioni per cui il governo vuol separare i percorsi professionali di giudici e pm: “Lo dico con dolore, noi magistrati oggi abbiamo i due terzi degli italiani che non si fidano di noi. La credibilità della magistratura è scesa sotto il 35%. Quando sono entrato in magistratura e conducevo le indagini sulle Br, la nostra credibilità era superiore a quella della Chiesa cattolica. Ci sarà una ragione per la quale oggi i cittadini in noi non credono più”. E si scaglia in particolare contro la Procura di Milano, citando i casi di Davigo, ex pm di Mani pulite recentemente condannato in via definitiva (per una parte delle condotte contestate) nel processo sul caso dei verbali dell’avvocato Piero Amara, e del pm De Pasquale, condannato in primo grado a otto mesi per rifiuto di atti d’ufficio nel processo Eni-Nigeria. “Sono il primo a patrocinare la presunzione di innocenza, quello che però posso dire da cittadino è che una Procura che per anni, per decenni è stata considerata un po’ il simbolo della magistratura italiana ha contribuito al crollo, che è ormai palpabile, della credibilità della magistratura. Abbiamo avuto un protagonista di Mani Pulite che è stato condannato in via definitiva: il dottor Davigo è oramai tecnicamente parlando, secondo le sue stesse parole che ha usato nei confronti di Craxi, un pregiudicato. E parliamo di una delle colonne della Procura più importante d’Italia dopo quella di Roma” (in realtà Davigo non è più pm dai primi anni Duemila). “Poi abbiamo visto il caso di De Pasquale e di altri colleghi ancora sotto processo: non è una bella immagine della magistratura”, insiste Nordio.
Sulla vicenda che ha coinvolto De Pasquale affonda anche il direttore del Giornale Alessandro Sallusti, collegandola all’indagine per corruzione sull’ex governatore ligure Giovanni Toti. “Se un politico è raggiunto da un avviso di garanzia di fatto si deve togliere di mezzo, perché il solo sospetto lo rende inadeguato a esercitare la sua mansione. È appena successo con Giovanni Toti: indagato e arrestato, è stato liberato quando si è dimesso. La magistratura gli ha detto: “Ti devi dimettere perché puoi reiterare il reato”. Bene, ci sto. A Milano però c’è un pm molto famoso, si chiama De Pasquale, che ha fatto un processo contro Eni, la prima azienda di questo Paese, creando a questa azienda danni inenarrabili. Si arriva alla fine del processo Eni e si scopre che il dottor De Pasquale ha truccato quel processo e ha omesso di depositare delle prove a favore della difesa. Per questo è stato indagato, rinviato a giudizio e condannato. Sapete che lavoro fa ora? Il sostituto procuratore a Milano”, attacca. “Perché Toti indagato si deve dimettere e un magistrato condannato può continuare a fare il suo lavoro?”.
Ospite del panel anche il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia, nel difficile ruolo di dover spiegare le storture del disegno di legge di fronte a un pubblico ostile e a relatori tutti schierati contro la sua tesi (oltre a Nordio e Sallusti, sono intervenuti anche il giudice romano Valerio De Gioia e il costituzionalista Mario Esposito, entrambi pro-separazione). “Questa riforma costituzionale non intercetta nemmeno uno dei veri problemi della giustizia“, sintetizza il portavoce delle toghe, ricordando al Guardasigilli che “la separazione delle funzioni in magistratura c’è già: chi entra in magistratura oggi può cambiare funzione una sola volta (e nei primi dieci anni di carriera, ndr), poi resta radicato nel ruolo di giudice o di pubblico ministero. Chi accusa lo fa a vita, chi giudica anche”. Il vero scopo della riforma, esplicitato nelle relazioni ai ddl parlamentari che hanno preceduto l’iniziativa del governo, è invece l'”indebolimento del potere giudiziario“, considerato strabordante. In tutti i Paesi in cui esiste la separazione delle carriere, sottolinea Santalucia, “c’è la dipendenza del pm dall’esecutivo o comunque un suo collegamento con la politica”: anzi, la Corte di giustizia europea ha di recente stabilito che la figura del pubblico ministero in Germania e in Francia, “proprio per il collegamento con il potere esecutivo, non assicura le garanzie di indipendenza e autonomia” necessarie a considerarlo un’autorità giudiziaria.
Una preoccupazione che il ministro liquida ancora una volta come infondata: “È scritto nella riforma costituzionale che anche il pubblico ministero, magistrato inquirente, avrà la stessa indipendenza e autonomia dell’organo giudicante”, dice. “La separazione delle carriere”, spiega, “ha una ragion pura e una ragion pratica: quella pratica è che rientrava nel programma di governo ed è nostro dovere portarla a compimento. La ragion pura è che la separazione delle carriere è connaturata a una riforma fatta più di trenta anni fa, voluta da un eroe della Resistenza, l’ex ministro Giuliano Vassalli, un codice accusatorio modellato sul sistema anglosassone. Nel processo accusatorio, in tutti i Paesi in cui è stato instaurato, le carriere sono separate”, ripete. Poi precisa di auspicare lo svolgimento di un referendum (obbligatorio se la riforma non sarà approvata con il consenso dei due terzi del Parlamento, “perché per un argomento così delicato l’ultima parola deve essere quella del popolo. Certo”, ammette, se non dovesse passare “delle conseguenze per il governo ci sarebbero. Però attenzione, non vorrei che un domani un referendum di questo tipo fosse, come avvenuto in altri casi, personalizzato: governo sì, governo no. Questo non sarà né contro la magistratura né contro il governo”, afferma.