di Rosamaria Fumarola
Elena Casetto, 19 anni, muore il 13 agosto 2019 nel rogo del reparto psichiatrico dell’ospedale “Papa Giovanni XXIII” di Bergamo, presso il quale era ricoverata. Suppongo che chi mi stia leggendo avverta come me un moto di orrore senza pari nel figurarsi per una frazione di secondo una giovane donna, distesa e legata sul letto d’ospedale, guardare in faccia la propria morte mentre tutto intorno brucia. I casi poi di violenze perpetrate ai danni degli ammalati durante la contenzione fanno parte di un lunghissimo elenco a cui nessuno però presta di fatto attenzione.
Come è possibile che a quarant’anni anni dall’entrata in vigore della riforma Basaglia sia ancora esercitata la contenzione fisica nei confronti degli ammalati psichiatrici (ma anche delle persone anziane)? Non esiste dal 1978 in poi norma di legge nel nostro ordinamento che autorizzi il ricorso ai mezzi di contenzione, sebbene esistano dei protocolli che ne disciplinano l’uso. Si potrebbe osservare che il ricorso ad essa sia inevitabile per impedire che l’ammalato possa farsi o fare del male ad altri e in effetti lo stato di necessità è la giustificazione brandita per ogni tipo di coercizione che riguardi i pazienti psichiatrici. Tuttavia il contenimento deve essere momentaneo per indurre l’ammalato a superare lo stato di crisi e garantirgli la cura.
L’utilizzo dunque dei letti di contenzione, non essendo finalizzato ad un esercizio momentaneo, non deve ritenersi lecito. Attualmente utenti e familiari possono e devono vigilare, in assenza di altre misure di tutela, affinché non si verifichino abusi, chiedendo ad esempio copia delle cartelle cliniche, sebbene a tale proposito converrà ricordare che le cartelle cliniche possono illecitamente essere manomesse o non essere aggiornate, come nel caso di Franco Mastrogiovanni, un insegnante elementare di 58 anni che nel 2009, a Vallo di Lucania, in provincia di Salerno, venne fermato dai vigili e costretto in un letto d’ospedale dove, legato mani e piedi senza motivo e così tenuto per 87 ore, senza neppure essere idratato, andò incontro alla morte, della quale gli infermieri si accorsero solo sei ore dopo.
La Cassazione ha condannato i sei medici e gli undici infermieri del San Luca di Vallo di Lucania, sebbene nessuno dei responsabili sia stato detenuto in carcere e sospeso dal proprio lavoro, neppure per un giorno. Nel passaggio dalla lettera della legge agli atti concreti che la pongono in essere pare non attuato il dettato che impone prima di ogni altra cosa di considerare l’ammalato un essere umano. Come mai non è accaduto o non è sempre accaduto? Perché tutto ciò prevede un’emancipazione culturale che, si sa, è la cosa più difficile da raggiungere, poiché si tratta di guardare le cose imponendosi un modo nuovo di chiamarle e questo, laddove chi ci sta di fronte non è dotato delle nostre stesse armi che gli consentano di vincere o di perdere contro di noi, è quasi impossibile da realizzare.
Quando avremo superato il confine, anch’esso culturale, tra un “noi” e un “loro” (e sappiamo bene che non accadrà e non basterà una sola volta per tutte), porre in essere le graduali mediazioni che permettano, in una situazione di necessità, di approcciarci a chi è in sofferenza in modo non rigido e semplificato, ma flessibile come nel caso di qualunque altro essere umano, la realizzazione dei principi ispiratori della legge Basaglia potrà considerarsi più vicina.
Mi sia consentito infine concludere con una domanda: se per uno scherzo del destino, a torto credessimo che chi ci è di fronte sta per attentare alla nostra vita o a quella di un nostro caro e ci difendessimo per impedirlo, la violenza contenitiva del presunto nemico non ci offrirebbe su un piatto d’argento la prova del fatto che abbiamo ragione e che costui sta davvero per porre fine alla nostra esistenza?