Uno studio ha mostrato che negli ultimi 20 anni, i piani di risparmio in Etf azionari globali hanno reso in media l'1,8% in più all'anno rispetto alla media dei fondi pensione privati
È stata sventata, per ora, la decisione del governo di aprire un nuovo semestre per la scelta da parte del lavoratore di spostare il trattamento di fine rapporto dall’azienda alla previdenza complementare con la regola del silenzio-assenso. La proposta di Fratelli d’Italia non è entrata nella legge di bilancio durante l’esame in commissione alla Camera. […]
È stata sventata, per ora, la decisione del governo di aprire un nuovo semestre per la scelta da parte del lavoratore di spostare il trattamento di fine rapporto dall’azienda alla previdenza complementare con la regola del silenzio-assenso. La proposta di Fratelli d’Italia non è entrata nella legge di bilancio durante l’esame in commissione alla Camera. Tuttavia le forze della maggioranza starebbero ragionando sull’ipotesi dell’inserimento in un altro provvedimento. Partita tutt’altro che chiusa, dunque.
In sostanza si chiederebbe ai lavoratori che già avevano deciso di voler tenere il Tfr in azienda (o presso la tesoreria Inps per le imprese con oltre 50 dipendenti) di ripetere la scelta una seconda volta. Altrimenti, da quel momento in poi, i contributi finirebbero “d’ufficio” in un fondo pensione. Difficile capire il senso della proposta. Il sospetto è che si voglia fare un favore a chi i fondi gli gestisce ovvero banche, assicurazioni associazioni industriali e sindacati che metterebbero le mani anche sui soldi dei “distratti”, ovvero di chi non si pronuncia esplicitamente contro la destinazione ai fondi.
La motivazione ufficiale pare davvero deboluccia. Si suppone che chi non ha scelto i fondi non fosse abbastanza ben informato. Quindi la nuova pronuncia dei lavoratori dovrà essere accompagnata da una “campagna di informazione”. Ma, vale la pena di ricordare, un lavoratore può sempre decidere di destinare il suo Tfr ai fondi, quindi sarebbe stato sufficiente avviare la campagna informativa senza bisogno di obbligare nuovamente a scegliere e senza requisire il “malloppo” di chi non lo fa. Forse che le ragioni a favore dei fondi non siano poi così inequivocabilmente convincenti?
Ci sono buone ragioni per scegliere la previdenza integrativa. Ma ce ne sono anche per decidere di non immettere i propri soldi nei mercati finanziari che comportano sempre un qualche livello di rischio, seppur graduabile. Ci si può attendere un periodo di alta inflazione e tassi alti (condizione che favorisce la rivalutazione automatica del Tfr). E, perché no?, anche di natura etica. La ricerca di rendimenti da parte dei fondi pensione ha contribuito ad alimentare molti degli eccessi connaturati ai mercati e a far sì che le aziende di focalizzassero sui ritorni di breve termine, anziché su percorsi di crescita sostenibili. Spesso, inoltri, i fondi si affidano a gestori patrimoniali che hanno politiche particolarmente spregiudicate in fatto di ambiente, diritti e business discutibili come l’industria bellica o del tabacco.
Tuttavia, prendiamo per buone le ragioni del governo ma avanziamo una modesta proposta. Tutte le, numerosissime, ricerche in materia mostrano che i fondi comuni amministrati da gestori ottengono risultati peggiori rispetto agli indici di riferimento. Per intenderci, un fondo comune che investe sulle azioni italiane fa quasi sempre peggio dell’indice della borsa italiana. Questo accade già nel breve periodo (quando sono più influenti fattori casuali) ma diventa una certezza nel lungo periodo (quello su cui dovrebbe ragionare chi ha davanti a se molti anni di contributi da versare).
Citiamo giusto qualche cifra, la documentazione in materia è incontrovertibile e sul punto non c’è molto da discutere. In Europa, in un periodo di tre anni, appena il 28% dei fondi fa meglio del mercato, nell’arco di un ventennio 9 fondi su 10 vanno peggio dell’indice di riferimento. Negli Stati Uniti o altrove cambia poco. Per i fondi obbligazionari le cifre sono un filo meno impietose ma la sostanza non cambia. Non solo, i fondi comuni, fanno pagare svariate commissioni, spesso anche quando i risultati sono negativi, che riducono ulteriormente i guadagni effettivi per chi li sottoscrive.
Ecco perché negli anni si sono affermati i gli Etf, fondi che non fanno altro che replicare pedissequamente la composizione di un determinato indice e, pertanto, hanno commissioni di gestione irrisorie se non inesistenti. Esistono Etf di qualsiasi tipo e legati ad ogni tipo di prodotto finanziario, indici, commodities, obbligazioni, titoli di Stato, etc. Assemblare un mix conforme alla linea di investimenti scelta da un lavoratore (più o meno rischiosa e, potenzialmente, più o meno redditizia) non comporta nessuna particolare difficoltà.
Uno studio dell’università La Sapienza ha mostrato che negli ultimi 20 anni, i piani di risparmio in Etf azionari globali hanno reso in media l’1,8% in più all’anno rispetto alla media dei fondi pensione privati. Sarebbe quindi utile puntare su questa soluzione e anche su questo dovrebbe concentrarsi la campagna informativa del governo. Del resto, da svariate rilevazioni, emerge che i lavoratori più giovani sono già piuttosto inclini a questa soluzione. Certo, questo toglierebbe un po’ di soldi all’industria del risparmio gestito. Ma non è certo questo che interessa, o dovrebbe interessare, al governo, attento invece a far si che la previdenza integrativa frutti quanto più possibile per un lavoratore. O no?