“Il potere di accertamento del giudice non può essere limitato dalla circostanza che uno Stato sia incluso nell’elenco di paesi da considerare sicuri sulla base di informazioni vagliate unicamente nella sede governativa”. La sentenza non è quella tanto attesa sui ricorsi presentati dal Viminale contro le decisioni dei giudici di liberare i primi trattenuti in Albania. Ma i principi fissati dalla prima sezione civile della Cassazione impattano ugualmente sulla vicenda, stabilendo il potere-dovere del giudice di verificare la legittimità della designazione del Paese sicuro e, nel caso, di disapplicare la norma se incompatibile col diritto europeo.

“Non sta alle toghe decidere se un Paese è sicuro”, va ripetendo la maggioranza da quando i giudici hanno svuotato i centri in Albania. Questione, quella della compatibilità tra il diritto europeo e la lista di Paesi sicuri stilata per decreto dal governo, che il Tribunale di Roma aveva già rinviato alla Cassazione a luglio, chiedendo se attenersi all’elenco governativo o se verificare d’ufficio la situazione del Paese in base alle fonti indicate dalla normativa europea. Nella risposta depositata il 19 dicembre, la Corte suprema smonta decisamente la tesi del governo, chiarendo che la designazione dei Paesi sicuri non può essere sottratta al controllo giurisdizionale. È vero, il rinvio di luglio si riferiva alla lista dei Paesi contenuta nel decreto interministeriale del 7 maggio scorso, poi superato a ottobre da un decreto legge del governo, convinto che i giudici non avrebbero potuto disapplicare una norma primaria. Ma la sostanza non cambia. Anzi, basandosi sulla primato del diritto europeo, la sentenza della Cassazione demolisce anche questa convinzione: “L’inserimento di un Paese nella lista di quelli sicuri non è un atto politico perché deriva dalla applicazione dei criteri individuati dalla direttiva europea 32/2013 e dalla normativa italiana che la recepisce”. Al contrario, “la nozione di paese di origine sicuro ha carattere giuridico” e “la presenza di un aspetto politico non può giustificare il ritrarsi del controllo giurisdizionale“.

La Cassazione cita anche la Corte di giustizia europea, che nel frattempo, il 4 ottobre scorso, già stabiliva l’obbligo del giudice di verificare d’ufficio la legittimità della designazione del Paese sicuro. Il potere-dovere del giudice di sindacare su tale designazione, dice ora la Cassazione, “è una soluzione che discende de plano dalla sentenza della Corte di giustizia del 4 ottobre 2024”. Non solo: contrariamente a quanto sostiene il governo, il giudice può sindacare anche a prescindere dal singolo caso in esame. Chi viene da un Paese considerato sicuro vedrà la sua domanda esaminata in modo sommario, in base a una procedura accelerata che prevede minori garanzie. Per questo, dice la Cassazione, “la necessità di una valutazione aggiornata non riguarda soltanto il merito della domanda di protezione internazionale, ma anche l’utilizzabilità della procedura prevista per i migranti provenienti da paesi sicuri. Se così non fosse, sarebbe vulnerato il significato più profondo dell’effettività della tutela garantita dal giudice ordinario quando sono in gioco diritti fondamentali che attengono al diritto di asilo e di protezione internazionale”. In conclusione, “il giudice può valutare la sussistenza dei presupposti di legittimità di tale designazione, ed eventualmente disapplicare in via incidentale il decreto ministeriale recante la lista dei Paesi di origine sicuri allorché la designazione operata dall’autorità governativa contrasti in modo manifesto con i criteri di qualificazione stabiliti dalla normativa europea o nazionale”.

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