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‘Racconti da Gaza’ di Valerio Nicolosi e ‘Re:tour’ di Michela Chimenti, i podcast sulla Striscia da due prospettive opposte

Da una parte la conoscenza del territorio e le testimonianze in loco per la cronaca e l'analisi geopolitica, dall'altra il viaggio surreale nella zona israeliana che circonda il muro, là dove "è sempre il 7 ottobre", tra memoria, propaganda e business

di Elena Rosselli
RE:TOUR – RITORNARE A VIVERE A UN PASSO DA GAZA - 3/3

RE:TOUR – RITORNARE A VIVERE A UN PASSO DA GAZA - 3/3

Qualcuno li definirebbe ‘tour dell’orrore’, ma in Israele si chiamano ‘tour di resilienza e speranza’. Michela Chimenti, già autrice di ‘Una notte a Fiumicino’, il 29 luglio 2024 è partita alle 6.30 da Gerusalemme insieme ad altre 20 persone (4 italiani, 1 tedesco, 15 ebrei americani) per un viaggio di un giorno nella Gaza envelope, la zona di 10 km che circonda la Striscia, per realizzare il podcast ‘Re:tour’ (Lifegate). Si tratta di una zona, dove vivono 70mila persone a cui il governo israeliano garantisce particolari agevolazioni economiche, un territorio che per la sua vicinanza al muro che circonda Gaza, ha subito l’impatto più immediato del 7 ottobre. Luoghi dove la testimonianza di quanto è accaduto alle vittime e ai superstiti, si mescola alla propaganda e a un business molto remunerativo, tanto che “il governo Netanyahu ha già rifinanziato queste operazioni con 86 milioni di dollari“, spiega la giornalista.

Si parte dal moshav di Netiv Haasara, l’insediamento israeliano più vicino al confine nord di Gaza, solo 200 metri, che distanziano una bolla dotata di ogni confort, dalla zona della Striscia in cui, dopo l’assedio cominciato il 5 ottobre, il ‘piano dei generali’ ha raso al suolo ogni cosa. “Con una camera puoi fotografare Gaza”, dice Asaf, la guida locale, ma non c’è più niente da fotografare, nemmeno le macerie: l’esercito israeliano ha distrutto tutto. Seconda tappa: il kibbutz di Alumin. A parlare è Malcom, ebreo di origine inglese, che si è trasferito lì grazie all’aliyah, la legge sul diritto al ritorno nella terra promessa, sancita nel 1950 dal neonato stato di Israele e poi estesa e rafforzata nel ’54 e nel ’70, che non solo conferisce la cittadinanza israeliana, ma garantisce anche una serie di benefici e agevolazioni economiche, persino corsi di lingua, a chi si stabilisce nel Paese. “Sarà proprio Malcom a dire una frase che dovrebbe lasciare aperta la strada a qualche dubbio: ‘quel 7 ottobre anche se era shabbat ci dissero di tenere acceso il cellulare’ – riporta la giornalista – Eppure, anche se per ore quelle zone rimasero scoperte dall’aiuto dei militari, nessuno mette in dubbio l’operato dell’Idf. Mai“.

E’ sempre ad Alumin poi che Chimenti racconta una scena tra le più surreali di tutto il podcast: una piscina per i bambini con vista su Gaza (qui le foto). “Chi la vede non è mai turbato da ciò che accade oltre il muro, anzi, la prospettiva è rovesciata: si rammaricano che i bambini debbano avere una vista così penosa”. Quanto all’acqua, “prima del 7 ottobre nella Striscia avevano a disposizione in media 15-20 litri a testa contro i 100 previsti dall’Oms – spiega – in Cisgiordania 70 litri contro i 280 per ciascun israeliano e i 350 per i coloni degli insediamenti illegali. – continua – Questi numeri almeno a Gaza non hanno più nessun significato, ma è chiaro come l’acqua sia un arma di ricatto del governo israeliano sui palestinesi”. Non solo l’acqua per coltivare, ma anche l’acqua da bere, l’acqua come condizione igienico-sanitaria minima, come hanno riconosciuto la Corte penale internazionale nelle motivazioni dell’arresto di Netanyahu e Gallant, i report di Amnesty, Medici senza frontiere e ultimo in ordine di tempo, Human Rights Watch, che certifica “crimini di sterminio e atti di genocidio”.

I palestinesi non esistono nelle parole o nei pensieri dei compagni di viaggio di Chimenti: ogni tanto si sente parlare di “arabi”, più spesso di “terroristi”, “animali” e ovviamente “Hamas”. “E’ ovvio che si tratti di un tour sul 7 ottobre, ma c’è una cancellazione totale dell’elefante nella stanza. Mi sono resa conto che ero solo io a pensare ai palestinesi. Il lavaggio del cervello è così potente, così pervasivo in una società dove ogni uomo fa 3 anni e ogni donna 2 di militare obbligatorio, che non c’è spazio per coltivare il dubbio. Inoltre, come ricorda Asaf, la guida del tour, loro nell’area A (nei Territori occupati, ndr) non possono andare, se non da soldati. Quindi, quando ci entrano, a 18 anni, armati, dopo essersi sentiti dire per una vita che quelli oltre il checkpoint sono i nemici, non c’è quasi nessuna possibilità di cambiare prospettiva”.

Il tour prosegue sulla strada 232 verso il sito del Nova Festival, il cimitero delle auto e infine Sderot, la città a un solo chilometro dalla Striscia. Qui si apre il capitolo su Zaka, una controversa organizzazione di soccorso, di cui si è parlato molto quando Yossi Landau e Chaim Otmazgin raccontarono al mondo le atrocità compiute da Hamas a Be’eri. Quando però la stampa israeliana concluse che gli episodi raccontati dai due volontari erano stati inventati di sana pianta e Landau stesso in quattro diverse occasioni spiegò di averli immaginati perché suggestionato dalla situazione, i media internazionali nella maggioranza dei casi non fecero marcia indietro. Come se ci fosse bisogno di aggiungere un carico di bestialità all’orrore del 7 ottobre. “Anche nel luogo che oggi è noto come “cimitero delle auto”, l’Idf non mandò subito i reparti specializzati, – continua la giornalista – ma i volontari di Zaka, che misero subito in piedi aree per la donazioni, trasformando i luoghi della strage in leve per la beneficienza“.

Spesso si vedono sui social video di famiglie israeliane e anche gite scolastiche organizzate a Sderot per guardare e fare foto a Gaza devastata sullo sfondo. “Ci andavano già prima del 7 ottobre – racconta l’autrice – lo chiamano ‘Cinema Gaza’“. Già nel 2009, durante l’operazione militare nota come “Piombo fuso”, infatti, la gente del posto si riuniva per guardare i bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza, applaudendo quando sentivano e vedevano le esplosioni. Nel 2014 durante un’altra operazione militare, “Margine protettivo”, le foto pubblicate dal giornalista danese Allan Sørensen fecero il giro del mondo: alcuni israeliani avevano sedie pieghevoli, altri divani, birre e popcorn. Ora in cima a quella collina c’è un’area attrezzata con binocoli a moneta, panchine e tettoie per proteggersi dal sole. “Il problema non è solo il governo israeliano, ma soprattutto la società israeliana che non si chiede mai, se non in rarissime eccezioni, quale sia il costo dell’occupazione“.

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