Questo film è un affresco luminoso e toccante sul passaggio di testimone, anagrafico e culturale, tra generazioni che monta minuto dopo minuto, lieve e corposo, proprio come quel tofu migliore di Hiroshima
“Senza il nigari – il cloruro di magnesio naturale – il tofu non è tofu. E la produzione di massa non riuscendo a gestire questa variabile, per compensare usa coagulanti artificiali”. Benvenuti nel mini mondo di Tofu in Japan – La ricetta segreta del signor Nakano. Un film deliziosamente piccino, a cavallo tra comico e dramma sul tema della felicità rintracciabile nelle cose semplici ed infinitesimali di ogni giorno (ogni paragone con tante troppe grandi produzioni cinematografiche è voluto e lecito). Drin drin.
Il campanello di Perfect Days ha suonato. Sembra che filosofia e spirito tra i due film si somiglino. Invece il regista e sceneggiatore nipponico Mihara Mitsuhiro condivide con l’exploit in terra giapponese di Wim Wenders qualcosa che a sua volta Wenders condivideva con Paul Auster di Smoke. Piazzarsi in un angolo leggermente periferico di un paese/città, qui in Giappone, e mostrare lo scorrere della quotidianità di persone qualunque, il meno corrotte da schemi di vita moderni e consumistici. Nel caso del film di Mitsuhiro il plot è ambientato nei primi anni duemila ed è incentrato sulla bottega di tofu di un paese vicino a Hiroshima gestita dal settantenne burbero Takano (Fuji Tatsuja) e da sua figlia quasi cinquantenne Haru (Aso Kumiko), dove i due producono artigianalmente il tofu dalla selezione dei semi di soia alla loro tritatura, passando dalla cottura a vapore alla cagliatura (vegetale), fino alla frittura. Takano e Haru lavorano in armonia da tempo, ma mentre lei vorrebbe innovare mantenendo comunque la tradizione, lui non cambierebbe una virgola dell’abituale processo produttivo casalingo. Quando i medici comunicheranno a Takano che ha bisogno di un intervento chirurgico per un’ostruzione arteriosa, l’uomo cercherà con urgenza un compagno di vita per la figlia, ma non sarà il giovane chef di cucina italiana a prendere la mano di Haru.
Cadenzato sull’evolversi degli accadimenti dei due protagonisti su tre primavere che si susseguono, Tofu in Japan è un affresco luminoso e toccante sul passaggio di testimone, anagrafico e culturale, tra generazioni che monta minuto dopo minuto, lieve e corposo, proprio come quel tofu migliore di Hiroshima, e forse di tutto il Giappone, che viene decantato dai clienti della bottega e che nel marasma del globalismo artificiale continua ad essere un alimento sano e locale. Mitsuhiro concede spesso respiro al rapporto padre-figlia, sviando su sottotrame che ruotano attorno a Takano: dal tono romantico con la signora single, malata di cuore come lui, e come lui figlia di morti causati dalla bomba atomica, con la quale inizierà una stretta frequentazione; al contrappunto comico di un gruppo di pittoreschi vicini di bottega. Sempiterni interni tra tubi, recipienti e pentoloni per il tofu si alternano ad esterni urbano-naturali in divenire con una grazia encomiabile che si adagia sulla nostalgia degli anziani, nonché sui rintocchi di commento musicale al pianoforte, come fosse uno degli ultimi titoli di Eastwood con Clint in scena.
Del resto Fuji Tatsuya è un attore strepitoso: capace di modulare il calore della scena con pochi cenni di dialogo e la variazione di gesti o movimenti, già nei panni del classico “vecchio brontolone” per Mitsuhiro Mihara in altri due film (Photo Album of the Village e Flavor of Happiness), nonché protagonista del celebre L’impero dei sensi di Nagisa Oshima del 1976. Le testate giapponesi ricordano che anche Ozu si auto qualificava “produttore di tofu”, sfornando film dopo film tematicamente e stilisticamente simili. E con Tofu in Japan siamo inevitabilmente sulla stessa strada del maestro. Vincitore dell’ultimo Far East Film Festival, Tofu in Japan è stato piazzato nelle sale italiane per le feste di Natale grazie ad Academy Two.