In una interminabile sequenza di verdetti, il tribunale di Avignone ha condannato Dominique Pelicot a 20 anni di carcere e gli altri 51 imputati a pene dai 3 ai 12 anni. E’ uno tra i processi per stupro con più condanne, perlomeno in un luogo dove non si sta consumando una guerra, e resterà nella storia di un crimine che solo la forza delle donne ha tratto dalla pietra che lo ha custodito e occultato, la cultura dello stupro, scolpendo un’altra verità con la loro parola. Le vittime lo hanno fatto ogni volta che hanno svelato violenze, affrontando lo stigma sociale e i pregiudizi dei giudici. Ogni volta hanno assestato un colpo all’omertà sul fenomeno della violenza maschile, sui rapporti di forza che ci sono in gioco, pagando il prezzo del giudizio sociale. Quante vittime di stupro hanno scelto di lasciare le loro città dopo aver denunciato gli stupratori? Quanti uomini pur condannati in un aula di tribunale sono stati sollevati dalle proprie responsabilità dalla collettività?
Lo fece Fiorella e con lei, Loredana Rotondo e Tina Lagostena Bassi, nel 1978, riuscendo a processare non solo gli autori di violenza ma una intera società collusa con la cultura dello stupro: le battute, il senso di impunità degli imputati e gli ammiccamenti tra avvocati e il giudice sono ancora documentati nell’opera di Rotondo. Sono trascorsi 46 anni e oltre confine Gisèle ha assestato un altro colpo a quella pietra granitica che toglie voce alle donne e le scoraggia, portandole a colpevolizzarsi e a tacere, e ha scolpito un’altra narrazione nella memoria di tutti.
Quante volte ho ascoltato donne che avevano subito una violenza sessuale affermare “è stata colpa mia” solo perché erano uscite di casa o perché avevano accettato di uscire con l’uomo che le aveva aggredite? Non si denuncia una violenza sessuale se ci si sente colpevoli per averla subita. La scelta di Gisèle Pelicot è un dono per tutte le donne che si sentono colpevoli. Resa inerme da un farmaco senza nessuna possibilità di essere vigile durante le violenze, si è fatta potente mentre accusava gli stupratori: “Come avete potuto, non vi avevo dato il mio consenso”. Lo ha fatto senza mai sottrarsi allo sguardo altrui, camminando lentamente verso il tribunale dopo aver rifiutato la tutela dell’anonimato che le era stata offerta dalla legge francese. “Non spetta a me, non spetta alle donne provare vergogna ma a loro. Voglio che tutte le donne che sono state violentate possano dire: madame Pelicot lo ha fatto, allora lo posso fare anche io”. Il suo sorriso appena accennato ci ha commosso.
Ci è riuscita. Il suo messaggio scardina i pregiudizi che mettono l’onere della colpa e della vergogna sulle vittime di stupro. Gisèle Pelicot che mostra il proprio volto e non distoglie mai lo sguardo, nemmeno per un attimo quando è inquadrata dalle telecamere, si contrappone con una distanza abissale agli imputati che escono dall’aula del tribunale col volto coperto da mascherine da Covid.
Questo processo ci ha svelato anche molto altro. La violenza non è qualcosa di remoto e la famiglia non ha un valore assoluto. Le case celano tra le loro mura abusi indicibili, crimini efferati, violenze quotidiane. Il regista di questa serie di crimini era in pensione, un padre e un nonno che per quasi dieci anni ha cercato uomini che stuprassero la moglie, disponendo del suo corpo come fosse un oggetto – ma di nascosto fotografava anche la figlia. Il processo è davvero concluso con le condanne? Sul banco degli imputati sedevano uomini di tutte le età, dai 26 ai 70 anni, giornalisti, vigili del fuoco, impiegati, bancari, non erano parte della malavita e non conducevano vite ai margini della società. Alcuni degli imputati si sono dichiarati responsabili, altri si sentono innocenti e si sono assolti, nonostante tutto. Uno degli imputati durante il processo ha dichiarato: “Il mio corpo l’ha stuprata, la mia mente no” addossando la maggior parte della colpa a Dominique Pelicot che, a suo dire, tesseva l’inganno proponendo un gioco sessuale con la complicità della moglie.
A tutti è bastato il “permesso” di un marito per commettere una serie di violenze sessuali. Nessuno si è preoccupato del consenso di Gisèle Pelicot e se è vero che alcuni hanno creduto al gioco sessuale, sono comunque responsabili. Da tempo il movimento delle donne chiede agli uomini di interrogarsi sulla loro sessualità quando diventa strumento di dominio e chiede che prendano le distanze dalla misoginia che li rende complici. Non ci sono più alibi. Non ci sono più “non detti”. Tutto è stato maledettamente evidente con il processo a Dominique Pelicot e ai 51 stupratori per bene. Grazie Gisèle e grazie a tutte le altre che l’hanno preceduta.
@nadiesdaa