di Marco Pozzi
Pochi giorni fa l’Italia ha vinto la Coppa Davis. “Campioni del mondo” per la seconda volta consecutiva. Evento alquanto eccezionale, dovuto a una congiuntura particolarmente fertile e miracolosa per il movimento nazionale. E congiuntura redditizia, visto che molti si stanno iscrivendo ai corsi di tennis e i bambini, visto anche il momento di secca per il calcio, guardano Sinner in televisione e vogliono “diventare come lui”. Tutti con una racchetta in mano insomma.
A me invece è capitato di assistere, per la prima volta, a una partita di pallanuoto, maschile, campionato di A2.
Immediata percezione, fin dall’ingresso: in piscina i suoni sono diversi rispetto a un palazzetto. Rimbomba, l’acqua è un elemento diverso, diverso è il profumo, lo spazio, la luce, i suoi rifletti. Si percepisce l’acqua attraverso i sensi, nella vista, nell’odorato, nell’udito; vien quasi voglia di toccarla in effetti, di sentirla sui polpastrelli e, se per la stagione fuori fa caldo o freddo, d’immergersi come in una spa.
Nella pallanuoto l’arbitro è fuori dall’acqua, cioè l’elemento in cui si sta svolgendo la competizione; nella pallavolo e nel tennis l’arbitro è rialzato dal campo: anche simbolicamente, in questi sport è posto in una posizione superiore, quasi di divinità dal quale arriva il giudizio finale. Nel basket, come nel calcio, gli arbitri invece corrono nel medesimo campo degli atleti, al loro livello, come loro pari; e forse per tali ragioni si protesta con più facilità, meno deferenza e sacralità rispetto a un giudice superiore (e il video-check, tramite sensori a bordocampo e sopra la rete, provvede subito a disambiguare e sancire).
Nella pallanuoto anche l’allenatore è fuori dall’acqua, il che lo differenzia dai giocatori, lo allontana. Si possono chiamare time out per riorganizzarsi con la squadra, opzione che ad esempio manca nel tennis: nel tennis l’allenatore sta in tribuna e non può parlare con l’atleta, che è solo con sé stesso, l’intera durata della competizione; a lui stanno le decisioni, il controllo mentale, l’impossibilità di ricevere o dare un parere, di scambiare l’opinione. Inconcepibile per uno sport di squadra, che invece ha nell’allenatore il centro unificante fra i singoli, i quali invece si muoverebbero per loro conto con obiettivo diverso dall’armonia collettiva.
Nella pallanuoto poi il rapporto fra compagni ricorda qualcosa d’un incontro fra naufragi. Tutto in acqua è più complicato, perché occorre un impegno costante per stare a galla, ed ogni azione contiene la tara di uno sforzo individuale, che tiene concentrato l’atleta sul proprio corpo, in una costrizione anfibia che allontana dalla confort-zone di mammifero terrestre. Si aggiungono le espulsioni a tempo di un giocatore, come nell’hockey, che causano fasi d’inferiorità numerica, quando fra compagni bisogna compattarsi al massimo per difendersi.
I giocatori sono immersi in una dimensione cosmica di fondo che li accomuna; sentono il tifo in maniera diversa, troppo vicini all’acqua per non assorbire il suo sciacquio costante, i suoi schizzi sul volto. Diversa è la connessione coi tifosi, i cui applausi arrivano filtrati rispetto a un palazzetto di volley o basket. Ancora diverso dal tennis, dove persino non ci si può distrarre, neppure volendolo: il silenzio non lo permette. Neppure un brusio come possibilità a distrarsi, come uscita d’emergenza. C’è da far fatica a immaginare una partita di basket, o calcio, o volley, con pubblico taciturno mentre si sta giocando, esplodendo in applausi soltanto quando un punto/gol è stato ottenuto. Immaginare un palasport in silenzio assoluto, col microfono che richiama il minimo brusio fuori posto, tanto da poter ascoltare nitidamente ogni rimbalzo del pallone e ogni frenata della scarpa sul parquet, o addirittura l’eco del rimbalzo sul ferro, ecco, sarebbe quasi inquietante, da film dell’orrore (come si era costretti a fare durante la pandemia).
Altrettanto è difficile immaginare Wimbledon, o una qualunque partita di tennis, con lo speaker che invita il pubblico a rumoreggiare il più possibile mentre, come nei palasport americani, sul maxischermo una freccia di pixel si anima in un termometro per misurare i decibel del tifo: allo stesso modo sarebbe inquietante per un tennista, che non sentirebbe neppure la pallina e avrebbe la mente di continuo scagliata da un suono all’altro, in una bolgia che sfigurerebbe l’essenza stessa dello sport, basato sul rapporto con sé stesso. Diventerebbe un altro sport, a cui il nome ‘tennis’ non sarebbe più corretto (così come probabilmente sarebbe per un basket in mezzo al silenzio).