I lavoratori che si ritrovano dentro crisi industriali sono raddoppiati, dai 58mila di gennaio ai 106mila di fine anno. A dare questo dato è la Cgil, come censito nel “diario delle crisi” di Collettiva.it, anticipato dall’agenzia Ansa. Da automotive a chimica, moda, carta, energia: è “uno scenario sconfortante, che rischia di essere aggravato” spiega il sindacato. A quei numeri si aggiungono oltre 12mila addetti di piccole e medie aziende che hanno perso il lavoro, vertenze che non sono neppure arrivate alle istituzioni“. Complessivamente “sono 118.310 quelli che hanno già perso il lavoro o che annaspano nei tavoli” spiega ancora la Cgil. “Le mancate politiche industriali del governo Meloni, al di là degli annunci propagandistici di questo o quel ministro, dimostrano la distanza dal Paese reale e il totale disimpegno dell’esecutivo sul tema della crisi dell’industria italiana, che ormai è al palo da quasi due anni” sottolinea Pino Gesmundo, segretario confederale Cgil a capo dell’area delle politiche industriali. Con un “tessuto industriale impoverito”, avverte, servono “scelte diverse delle imprese e dei governi”.
Per la Cgil, ad “una incapacità totale del pubblico” sulle politiche industriali si aggiunge che “il sistema delle imprese non è in grado, da solo, di competere e di rispondere alle sfide delle grandi transizioni, verde e digitale, che da potenziale volano per l’economia rischiano di trasformarsi in un’ulteriore occasione di impoverimento per il nostro sistema produttivo e industriale, con la conseguente crescita della precarietà lavorativa”. Anche quando le crisi si chiudono positivamente, avverte ancora il sindacato, “spesso il saldo occupazionale è negativo: Insomma, soluzioni tampone, ma tutte accomunate dalla sostanziale deindustrializzazione e perdita di qualità delle produzioni”. Tra gli esempi più recenti e significativi citati da Gesmundo ci sono Beko (metalmeccanico, elettrodomestici del ‘biancò) con 4.400 addetti, Bellco (biomedicale) con 500, Eni Versalis (chimica di base) 8mila lavoratori diretti più 24mila dell’indotto e ancora Coin e Conbipel (commercio) 3400 operatori tra diretti e indotto.
L’accusa di Gesmundo è che negli ultimi trent’anni a guidare le scelte industriali “sono state le multinazionali e i fondi speculativi, che hanno fatto shopping di imprese nel nostro Paese, spesso a basso costo e usufruendo di benefici ed agevolazioni governative, con il totale disimpegno della politica e dello Stato”. Processi, aggiunge, che hanno riguardato anche le partecipate pubbliche.
Il sindacato avverte che “occorre considerare che le Istituzioni, ministero e Regioni, sono solite affrontare unicamente la crisi del sito industriale dell’azienda ‘madre’, e non dell’intera filiera produttiva, che spesso vede un numero di addetti altrettanto elevato, o superiore, rispetto ai diretti: lavoratori in somministrazione e in appalto, logistica, mense, pulizie civili industriali, manutentori meccanici”. Per la Cgil “le trasformazioni in atto nell’industria e nei mercati impongono politiche pubbliche di reindustrializzazione del Paese, politiche di tutela sostenute da un ammortizzatore dedicato alle crisi e politiche occupazionali che reimpieghino i lavoratori espulsi dai processi produttivi delle aziende in crisi, attraverso la loro riqualificazione professionale, in attività compatibili con la transizione. E, ove ciò non sia possibile, in progetti e piani di reimpiego a sostegno della collettività, in settori messi sempre più a dura prova nella crisi climatica e ambientale che stiamo attraversando”.
Uno scenario che sarebbe aggravato, aggiunge ancora il sindacato, se fosse confermato quanto annunciato dal ministro per le Imprese Adolfo Urso, cioè la “delega” (eufemismo) alle Regioni per i tavoli di crisi di aziende sotto i 250 dipendenti. La maggioranza delle Regioni, dice la Cgil, non ha strutture organizzate per affrontare le crisi di impresa.