La montagna non è mai salvifica, né per chi ci vive né per chi va a viverci. Semmai può contribuire a portare un temporaneo sollievo, come d’altra parte lo può fare il mare, il contatto con la natura, un nuovo inizio altrove, quando si ha la fortuna di poter scegliere di cambiare ambiente, o vita. È bene sfatare questa falsa credenza, che forse abbiamo ereditato dalla seconda metà dell’Ottocento, quando i ricchi e i letterati – spesso le due cose si sovrapponevano – scoprivano le montagne appena dopo scienziati ed esploratori, ribaltando un sentire comune e secolare che vedeva nelle terre alte insidie, difficoltà, spiriti maligni e demoni.

La montagna è fatta di brutture, come di brutture è fatto l’animo umano. Perché è questo il punto: la montagna non può salvarci, finché non facciamo i conti con noi stessi. In quanto individui e in quanto individui calati in una comunità.

Dove sono nato e cresciuto – un paese a 1000 metri di quota, in cima a una valle, che oggi conta 330 abitanti – per andare a scuola bisognava fare un’ora di bus. Partenza alle 7, ritorno a casa alle 15. Per frequentare le scuole nel capoluogo di provincia, bisognava alzarsi alle 5.30, farsi accompagnare in auto in un paese più a valle (perché a quell’ora il bus non passava) e si tornava a casa col buio, alle 6 di sera. La connessione Internet era così lenta – ora le cose sono migliorate – che era impossibile vedere un video di pochi secondi. Scherzando – ma è la verità – dico sempre che il primo porno l’ho visto a 19 anni, quando ho avuto la fortuna di studiare in città.

In montagna fa freddo nei mesi freddi, bisogna spalare la neve (quando c’è, un tempo ce n’era di più), il più delle volte non c’è nulla da fare: non ci sono musei, cinema, teatri, concerti. I ragazzi fanno uso di droghe, come i coetanei cittadini, e iniziano a fumare a dieci anni e a bere come spugne a 13-14. Quando cresci, non c’è lavoro, e sei costretto a fare il pendolare, su e giù da una valle, e passi la tua vita lavorando e guidando. Tutti ti conoscono e tutti parlano di te anche se non vuoi che lo facciano, anche se ti ritiri in casa e non frequenti nessuno. “Ah, e quello strano che sta in casa, lo avete visto? Non è tutto finito”.

In montagna le persone serbano rancori secolari, nati per una lite tra antenati, con cui si arrovellano da generazioni. Ci sono mentalità e comportamenti che più a sud prendono il nome di mafiosi. E il più delle volte è impossibile fare cambiare idea alle persone, convinte come sono di fare sempre la cosa giusta. A proposito di questo, dove sono cresciuto gli abitanti di un determinato paese prendono nomi – in dialetto – molto esemplificativi: carpini, montoni, caproni. L’ironia e la fantasia, come si vede, non mancano.

Ma per chi la sa cercare la montagna regala anche tanta bellezza. Il requisito fondamentale è sapere accettare che non ha nulla di salvifico, che è abitata da uomini e donne – nella maggior parte dei casi, sorprendentemente accoglienti – con gli stessi difetti di chi vive altrove.

Voglio ringraziare Paolo Cognetti per aver avuto il coraggio di aver espresso la propria sofferenza. E per aver ammesso che dalla montagna è stato respinto. Per quel che vale, gli mando un abbraccio e l’augurio di trovare se stesso. E la propria serenità.

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