Società

Percepiamo i migranti come altro da noi: il racconto generico dei media sui naufragi lo sottolinea

di Rosamaria Fumarola

“Strage di migranti nel Mediterraneo, almeno settanta morti” è il titolo di un articolo di non troppo tempo fa pubblicato su un nostro noto quotidiano. Ci parla in una lingua generica dell’astratta morte di un numero imprecisato di esseri umani, di cui non vengono forniti né i nomi né i cognomi, periti nel tentativo di raggiungere l’Italia. Questa mancanza di dati personali ci racconta in maniera nient’affatto implicita molte cose, prima fra tutte quale sia la narrazione di tali eventi che i media stanno facendo al paese: viene diffusa una notizia che riguarda uomini evidentemente percepiti come diversi, al punto tale che non si ritiene necessario diffonderne le generalità.

Se volessimo scendere un po’ più nel particolare ci sarebbe da domandarsi come mai questi uomini, migrati appunto dall’Africa, siano percepiti dagli italiani come altro da sé e la risposta potrebbe essere che ciò dipende in primo luogo dal colore della loro pelle, ma soprattutto ed è questa la ragione vera, dal fatto che sono dei disgraziati, non valutati in quanto esseri umani, ma solo nella misura in cui siano portatori o meno di beni che al nostro sistema potrebbero fare comodo. Essendo il nostro un paese regolato da un sistema capitalistico, il bene che i migranti dovrebbero portare con sé per essere accolti come uomini dovrebbe essere il danaro e tutto ciò che in danaro possa essere trasformato. E poiché peraltro tali esseri umani sono dei disperati, non godono nemmeno delle tutele giuridiche, che magari ci sarebbero, ma che non vengono avvertite come cogenti dalle autorità preposte alla loro applicazione e che ci imporrebbero un diverso trattamento delle individualità di ognuno di essi.

Cecilia Strada tempo fa sui social dava notizia del fatto che tutti i migranti che stanno per perdere la vita in mare urlano il proprio nome, affinché della loro morte vengano avvisati i familiari. Questa informazione ci parla in una lingua diversa da quella dei telegiornali nazionali: il messaggio di cui la Strada riferisce è che i migranti in punto di morte comunicano esattamente questo: “Io sono Tizio, avvisate la mia famiglia che sto morendo”. Questa comunicazione ci trascina hic et nunc nella realtà concreta di quel migrante, fatta di un nome, di una famiglia e di affetti che ad essa lo legano, una realtà pressoché identica a quella di ciascuno di noi. L’informazione fornita da Cecilia Strada ha dunque il grande merito di abbattere in un solo colpo tutte le barriere e i pregiudizi che i media italiani creano o contribuiscono a creare e mantenere in accordo quasi sempre con il potere politico. Questa comunicazione ci restituisce la verità di quanto accade che, come tutte le verità, è unica e non può essere contrabbandata.

La distanza che il potere politico vuole mantenere tra noi e quanti cercano di raggiungere il nostro paese sta tutta invece proprio nella genericità, in quella mancanza di concretezza che rende più facili reazioni ostili verso qualcuno di cui non si conoscono neppure il nome e cognome e che presumiamo perciò stesso essere diverso da noi. Ora, di tutto ciò che sta accadendo nel nostro paese in risposta ai fenomeni migratori, mi preme con profonda amarezza sottolineare che una soluzione mi pare ancora lontana da venire e che di questa lontananza ci parla proprio il generico racconto fatto dai media. Solo la storia individuale è infatti in grado di restituire autenticità a quella collettiva e di parlare la lingua della verità. L’informazione, l’arte e la letteratura devono assumersi l’impegno di rivelarci le storie di ciascuno. Tale approccio è il solo in grado di avvicinarci alla comprensione del problema delle ondate migratorie che sembrano, ma solo in apparenza, travolgere gli equilibri italiani in questo confuso momento storico.

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