Mafie

23 dicembre ’84: la strage del Rapido 904. Quel 33% di voti al Pci trovò risposta nella bomba

A metà del 1984 accadde una cosa in Italia che diede nuovo lavoro alle bande della destabilizzazione. Nel giugno si erano infatti svolte le elezioni europee e il Partito comunista, anche sull’onda della emozione per la improvvisa morte di Enrico Berlinguer, raccolse tanti consensi, superando per la prima volta quelli della Democrazia cristiana. Era il fatidico 33%, appena un punto sopra la Dc ma tanto bastò a riattivare gli spietati custodi degli equilibri atlantici.

Qualche mese dopo accadde una terribile strage mai rivendicata – come tutte quelle che hanno attuato la strategia della tensione: i vigliacchi colpirono due giorni prima di Natale, il 23 dicembre, alle 19:08, facendo saltare in aria il treno Rapido 904, partito da Napoli e diretto a Milano. Una carica radiocomandata venne innescata all’altezza della grande galleria dell’Appennino, lunga 18 chilometri, a San Benedetto Val di Sambro, tra Bologna e Firenze. 16 morti e 267 feriti.

È nota come la prima strage del “terrorismo mafioso”, una categoria criminale creata in quel periodo e che non spiega tutto (anzi poco): soprattutto l’allora procuratore di Firenze Pier Luigi Vigna volle considerarla come una sorta di diversivo escogitato da Cosa Nostra per distogliere l’attenzione dalle indagini che stavano correndo in Sicilia, mentre Tommaso Buscetta aveva appena cominciato a parlare. Ma nessuno pensa davvero che sia andata così.

Le sentenze hanno ascritto il significato di quel massacro a un’inedita congrega mafiosa siculo-napoletana (Cassazione 1992): sono stati condannati per strage i due boss di Cosa nostra Pippo Calò e Guido Cercola, assolti invece Giuseppe Misso (indicato spesso anche Missi), uomo chiave delle trame camorra-neofascisti, capo di un sistema che si propone una specie di restaurazione fascista e che per questo fine ha cooptato anche il deputato dell’Msi Massimo Abbatangelo, stralciato dal processo dopo essere stato eletto alla Camera, condannato a sei anni per aver consegnato l’esplosivo a Misso: in via esclusiva la responsabilità è stata attribuita a Cosa nostra, con la complicità di un artificiere tedesco, Friedrich Schaudinn, la cui ombra si allunga fino al 1992 anche nella Sicilia delle stragi.

Ma il grande capo Totò Riina venne assolto in primo grado nel processo che voleva inchiodarlo come mandante (2017), poi sopraggiunse la sua morte a interrompere altre indagini. Si è abbandonata in passato anche la pista fascio-mafiosa: il gruppo napoletano di Misso era una propaggine dell’organizzazione la Fenice, il braccio operativo di Ordine nuovo a Milano. Diversi pentiti hanno raccontato della dimensione politica delle attività di Missi e della sua organizzazione composta da più divisioni con diversi compiti: “Vi erano quelli che facevano solo azioni di disturbo, quelli che collocavano ordigni esplosivi a scopo di intimidazione e quelli che svolgevano attività di terrorismo anche in altre città italiane, per esempio Bologna e Arezzo” (Antonio Gamberale, pentito al processo Abbatangelo, dicembre 1988).

Intanto da poco (febbraio scorso) sono state riaperte le indagini dalla Procura distrettuale di Firenze, nel tentativo di trovare evidenze dei ‘concorrenti esterni’ di Cosa nostra, anche se restano pesanti come pietre le parole sulla strage di un uomo allora molto importante del Partito socialista, ministro delle Finanze, Rino Formica, noto tra i suoi amici di partito come il ‘pazzo’, che stava a indicarne capacità spiazzanti: egli disse in una intervista che l’Italia era stata avvertita con il sangue. “Ci hanno avvertito, ci hanno mandato a dire che l’Italia deve stare al suo posto sulla scena internazionale. Un posto di comparsa, di aiutante. Ci hanno ricordato che siamo e dobbiamo restare subalterni. E noi non abbiamo un sistema di sicurezza nazionale capace di opporsi a questi avvertimenti. I nostri servizi di sicurezza sono inefficienti perché così li hanno voluti gli accordi internazionali. Non difendono l’Italia perché non debbono difenderla. Sono funzionali alla nostra condizione di inferiorità”.

Qualche anno dopo Formica raccontò anche di una riunione dove avvenne qualcosa di più concreto delle sue parole: dunque, si tenne a Palazzo Chigi immediatamente dopo quel suo spericolato atto d’accusa ed erano tutti arrabbiati con lui, tranne Bettino Craxi (capo del Governo) che lo sostenne, ma gli disse che bisognava dare un po’ di soddisfazione all’ala più apertamente atlantista. Oltre a Formica e Craxi tra i convenuti c’erano Giovanni Spadolini, Giuliano Amato, Arnaldo Forlani e Giulio Andreotti: la riunione inizia con accuse che volano a voce alta, Amato lascia la stanza in silenzio, Forlani tenta di mediare e poi il divo Giulio: “Beh, forse sovranità limitata no, però in fondo, un trasferimento di competenze c’è stato: con atti amministrativi, con il nostro consenso, si intende ma che si poteva fare? Per esempio, prendete la circolare Trabucchi …”: il silenzio cala nella stanza. Craxi guarda l’orologio e dichiara chiusa la questione. Ciao Giovanni, ciao Giulio, arrivederci, anche Formica saluta e va via.

La circolare era del giugno 1960, governo Tambroni, ed era quella che consentiva la piena sovranità agli americani sulle loro basi, anche la merce che entrava e usciva non era soggetta a controllo doganale. Peraltro, quella esatta fase storica Craxi e Andreotti (questi alla guida della Farnesina) stavano sperimentando inedite forme di protagonismo italiano in politica estera, soprattutto nell’area Mediterranea, con una grande attenzione alla leadership di Yasser Arafat: un raffreddamento della loro iniziativa deve esser stato un punto d’onore oltreoceano (questo vuol dire Formica).

Anche se può sembrare difficile legare ad una strage quel pezzo di carta firmato da un ministro oggi sconosciuto, con quel nome ordinario, Trabucchi – in sede giudiziaria quasi impossibile – l’episodio racconta il contesto della strategia della tensione: l’Italia doveva restare immobile. E se il Partito comunista alzava la testa, o se la contestazione si spingeva troppo in avanti, fino ad ottenere grandi riforme, si rispondeva con le bombe. Gli strateghi del terrore vollero tradurre in termini moderni il suggerimento che Voltaire aveva affidato al suo Candido (1759): “In questo paese è bene ammazzare di tanto in tanto un ammiraglio, per dare coraggio agli altri”. Nell’Italia del 1984 un ammiraglio sarebbe stato troppo poco per fermare il futuro. Scelsero di colpire tra la folla.