Le città e le campagne della costa siriana sanguinano. L’ultimo a morire è stato un miliziano dell’esercito fedele al nuovo governo insediato a Damasco, ucciso in un agguato al confine fra Siria e Libano, al varco di Dabousieh. Il soldato, insieme alla brigata di stanza nel villaggio di Talkalakh, stava conducendo una operazione di controllo del confine quando uomini armati hanno aperto il fuoco. Sul terreno sono rimasti Sami Bakir, giovane miliziano originario della cittadina, e quattro feriti. Ma questo è solo l’ultimo di una serie di attacchi che stanno lasciando morti nella costa siriana. Tanto che dopo la pubblicazione di un video di un attacco a un santuario caro alla minoranza alawita sono esplose proteste in numerose città, da quelle costiere di Tartous, Jableh e Latakia fino all’entroterra con Banias e Homs. In quest’ultima la polizia ha dichiarato il coprifuoco dalle 18 del 25 dicembre. Le nuove autorità siriane hanno voluto precisare che il video al centro delle proteste è “vecchio”, risale alla conquista di Aleppo di inizio mese e che dietro l’incidente c’erano “gruppi sconosciuti”.
Una settimana fa, nei pressi di Latakia, a cadere sono stati quattro combattenti della brigata “Fliq al Sham”, appartenente al variegato fronte che ha deposto l’ex presidente Assad, mettendo fine a una dittatura durata 54 anni. Autori dell’attacco, secondo la ricostruzione degli eventi, sarebbero uomini ancora fedeli al vecchio sistema di governo.
Ahmed al Sharaa, il nuovo uomo forte di Damasco, per sedare questi focolai, alimentati da ex ufficiali latitanti, nelle ultime ore ha dato il via ad una operazione di “deterrenza e ricerca” si legge su molti quotidiani arabi. Nel mirino ci sono gli ex militari che si sono macchiati di crimini di guerra. Ma gli obiettivi ufficiosi di questa manovra sono quelli di ristabilire l’ordine in una regione, quella della costa siriana, che è il calderone confessionale della Siria.
E’ infatti fra Tartus, Lattakia e i villaggi della montagna che si gioca la partita confessionale del paese. La popolazione di credo alawita – la setta alla quale appartiene anche il presidente deposto Assad – ha in quelle zone la sua enclave storica. Da Qardaha, paesino sperduto fra le montagne a protezione della costa, partì Hafiz al Assad nella sua corsa verso il potere. Ed è in queste aree, nelle quali c’è forte presenza cristiana e sunnita, che vecchie paure mai sopite riemergono. Lo dimostrano vari comunicati emessi da organizzazioni religiose o associazioni alawite, in cui si chiede che la setta non venga identificata con Assad e che non sia esclusa dal futuro del paese.
Difficile però ristabilire la convivenza. Questo perché si è visto nell’arco dei 14 anni di guerra anche un cambiamento degli assetti demografici di queste aree. Zone prima a maggioranza sunnite, come il villaggio di Talkalakh, sono state svuotate di quella parte della popolazione, trasformando la minoranza (alawita) nella maggioranza.
Ma con la fine del regime degli Assad questi equilibri si stanno reinvertendo. La maggioranza della popolazione siriana sunnita, rifugiata in Libano, sta facendo ritorno nelle proprie case e la componente alawita lascia quelle località, dove ha sempre vissuto, ritornando nei territori storici dove la setta, perseguitata per secoli, ha costruito la sua enclave.
Vecchi rancori riemergono, con la scusa dell’odio confessionale. E la costa siriana, lontana dalla modernità di Damasco o Aleppo, vive la vera sfida del far convivere le varie confessioni nuovamente insieme. Ma bisognerà spegnere la paura ancestrale, fomentata per mezzo secolo dalla macchina di propaganda del regime, che le minoranze – senza Assad – sono destinate a scomparire dal paese. Qui, fra le alture e le rocce della costa, si gioca la vera partita: o si costruisce una Siria per tutti o verrà versato ancora sangue.