di Rosamaria Fumarola

Garcia Lorca in “Poeta a Nuova York”, durante il suo soggiorno americano della fine degli anni Venti, tra le altre cose descrive come agli occhi di uno spagnolo dovesse apparire la condizione dei neri d’America. Profondi, veri i versi nei quali tratteggia un quadro del popolo degli uomini di colore come ingabbiato in abiti e consuetudini fissate dai bianchi, senza più alcuna traccia delle proprie origini ed identità.

A quindici anni quelle parole mi parvero la sola sintesi degna d’interesse di ciò che gli schiavi africani deportati sul nuovo continente erano diventati. Da allora non ho mai più sentito qualcuno ricordare le parole del poeta spagnolo a proposito della condizione sempre problematica dei neri d’America, che comunque dovevano essere ben note a partire almeno dagli anni Sessanta agli attivisti dei diritti civili come Malcom X, che a più riprese ricordò come la maggior parte degli uomini di colore del suo tempo fosse convinta di essere inferiore ai bianchi e che fosse questa la ragione dell’imitazione pedissequa dei loro costumi.

Imbattersi dunque oggi in fenomeni quali la vendita di prodotti che vorrebbero far diventare bianca la pelle dei neri non dovrebbe meravigliarci, poiché la questione attiene ad una condizione e ai rapporti di forza tra gli esseri umani, che evidentemente non sono nel tempo granché cambiati se una star del pop come Michael Jackson, in fondo non molti anni fa, in punto di morte presentava lineamenti del viso e colore della pelle completamente stravolti rispetto a come erano in origine. Neppure dunque una star nota ed amata a livello planetario è riuscita a sottrarsi al ricatto di cui da sempre i neri sono schiavi, un ricatto da colonialismo culturale figlio di quello amministrativo, smantellato in parte nella seconda metà del 900.

Essere “più chiari” significa ancora oggi essere più simili ai padroni bianchi di un tempo. La globalizzazione ha poi di recente massicciamente contribuito a veicolare un solo modello culturale, quello stesso capace di farci inorridire di fronte alla pubblicità razzista del Pears Soap, che alla fine del 1800 prometteva di riuscire a sbiancare la pelle dei bimbi di colore, ma che non ci fa battere ciglio di fronte al numero illimitato di prodotti che oggi in Africa, in Asia ed in Europa promettono lo stesso risultato. Le donne orientali in massa a loro volta cercano di mutare le caratteristiche del proprio viso, sottoponendosi agli interventi di blefaroplastica che cambiano loro il taglio degli occhi a mandorla in uno più europeo, di fatto in qualche modo “aprendoli”.

A ciò bisogna aggiungere che vi sono paesi quali il Pakistan, nei quali il colore scuro della pelle è associato all’ idea di bruttezza e che dunque se si appartiene al sesso femminile è preferibile sottoporsi a qualunque forma di sbiancamento per garantirsi il matrimonio, anche se questo è causa di gravi forme tumorali. In particolare questa coincidenza della bellezza con un solo colore della pelle richiama una serie di importanti connessioni della dimensione estetica con quella non solo economica a cui abbiamo già fatto riferimento, ma anche con quella morale, legata alla prima, a sua volta forte espressione di quella politica. Preoccuparsi di pur giuste problematiche mediche del fenomeno in oggetto significa curare i sintomi di un morbo, non il morbo e ciò che lo genera, avendo noi sotto sotto interesse a che i rapporti di forza che ne stanno alla base non vengano mutati.

Tutto questo esprime ancora una volta una visione colonialista delle cose e del mondo, che noi abbiamo creato e di cui non abbiamo intenzione di liberarci. Quanto al legame poi tra la dimensione estetica e quella morale ed in estrema analisi politica su menzionata, i greci lo avevano già compiutamente espresso con il loro “kalos kai agathos”. Come occidente non siamo stati in grado ancora purtroppo di aggiungere nulla.

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