La speranza che il nuovo anno possa essere l’anno della pace ritrovata a Gaza come in Ucraina è molto diffusa e trasversale ed è un desiderio tanto comprensibile quanto condivisibile, anche per chi, come la sottoscritta, ha sempre presente la differenza tra l’aggredito e l’aggressore e solo per questo si è trovata in varie circostanze ad essere inclusa tra i “bellicisti da salotto” o “i servi della Nato”.
Per quanto riguarda l’Ucraina non si può ignorare la premessa. Ovvero che stiamo parlando di uno Stato che non aveva mire espansionistiche, che aveva rinunciato alle armi nucleari e che si è trovato invaso e parzialmente annesso con referendum farsa da una potenza nucleare che usa oltre ogni limite tale minaccia nei confronti dell’Occidente, accusandolo di voler fare quello che in realtà la Russia sta facendo dal febbraio 2022 (e prima ancora).
Già durante la campagna elettorale Donald Trump si era accreditato come potenziale risolutore in una manciata di ore del conflitto che si trascina tragicamente da quasi tre anni; poi all’indomani del voto ha ribadito di poter chiudere un accordo prima del suo insediamento, ricordando contestualmente all’Europa che non intende più assumersi tutti i costi economici della pace e della ricostruzione, così come della difesa europea.
In attesa del fatidico 20 gennaio, data dell’insediamento, le aspettative si moltiplicano; ma da subito è iniziata l’altalena in merito ai presunti contatti tra Trump e Putin, sempre smentiti da Mosca e da ultimo anche la dichiarazione fattiva del neoeletto: “Una della cose che voglio fare rapidamente è incontrare il presidente Putin e anche lui è d’accordo” – drasticamente ridimensionata da Dmitry Peskov con un comunicato laconico: “Finora non ci sono stati impulsi reali”. Mentre si succedono da parte di Mosca parole e fatti inequivocabili.
Se “tutto è calmo, tranquillo e stabile” al Cremlino, come ha sentito il bisogno di sottolineare lo zar – grazie al “rafforzamento” della sovranità russa e della sua potenza bellica che sarebbe bello misurare in una sfida missilistica impari tra Mosca e “i nemici occidentali” con obiettivo naturale Kiev – sul fronte continua l’avanzata secondo gli obiettivi iniziali.
E la minaccia nucleare anche contro chi non ha armamenti nucleari rimane sempre valida. Ma l’imponente conferenza di fine anno è stata anche l’occasione per ribaltare l’indisponibilità al dialogo sulle spalle di Zelensky, il vero guerrafondaio, di cui Putin ha di fatto chiesto l’estromissione come “precondizione necessaria per l’avvio del processo di pace”.
Una pretesa che, oltre ad essere squalificante per l’Ucraina in quanto paese sovrano, che sarebbe scavalcato e di fatto messo ai margini, è chiaramente irrealizzabile perché presuppone nuove elezioni, su cui potrebbe magari “vigilare” Mosca. Una manifestazione dell’intenzione di non voler negoziare, a meno di un mese dall’insediamento di Trump.
Da quella data Putin si aspetta verosimilmente che il Congresso americano non autorizzi ulteriori consegne di armi all’Ucraina e probabilmente anche che gli Usa ritirino l’autorizzazione all’uso delle armi a lunga gittata (che poi sarebbero a media gittata) oltre i confini con la Russia, concessa da Biden.
Intanto l’Europa mostra un attendismo nei confronti delle imminenti mosse di Trump che sconfina nell’ignavia. E cerca di derubricare sotto la voce “stanchezza” lo scollamento dalle opinioni pubbliche a cui non ha saputo spiegare la portata della posta in gioco e gli effetti nefasti di una defezione dal dovere, non solo morale, di garantire all’Ucraina una difesa in vista del probabile disimpegno Usa e di un possibile negoziato che non sia un “accordo” modellato sui diktat di Putin.
Insieme alle minacce e alle pre-condizioni negoziali impraticabili, Putin può esibire “avanzamenti sul campo a chilometri quadrati” anche grazie all’impiego di almeno 11mila militari nordcoreani, per ora nella regione di Kursk, di cui un numero imprecisato – tra i 1.100 e i 3.000 – già caduti, molti dei quali resi irriconoscibili per nascondere la cobelligeranza della Corea del Nord che sta incrementando enormemente anche l’invio di armi.
Così accantonata una tregua natalizia giudicata “non necessaria”, sembra che “il raggiungimento degli obiettivi” sia concentrato su Kherson, già occupata per 9 mesi e poi liberata dagli ucraini, che è la strada per Mykolaiv e Odessa e cioè lo sfondamento verso il Mar Nero. Un’offensiva di straordinaria potenza, con perdite enormi ma calcolate, in particolare per quanto riguarda i giovani coreani mandati all’assalto in prima linea pur di spingersi avanti il più possibile prima dell’arrivo dell’amico Donald alla Casa Bianca.
Tutti attendono l’energico intervento risolutore di Trump, anzi “le supposte magie di Trump, lo stregone d’oltreoceano” secondo la definizione suggestiva e realistica di Domenico Quirico. Solo che mentre i leader europei attendono cautamente fiduciosi o moderatamente allarmati (con l’eccezione di Orban e Fico entusiasti, in quanto fan di Putin come di Trump), Putin sa meglio dei suoi “nemici” cosa aspettarsi grazie alle precedenti intese per azzoppare avversari comuni, basti pensare alla “sinergia” nella campagna elettorale di Hillary Clinton.
Attenendosi alla consueta ambiguità, il Cremlino lascia la porta semichiusa a possibili colloqui di cui pretende di determinare tempi che devono essere confacenti alla sua offensiva e condizioni: via Zelensky, Kiev fuori dalla Nato sine die, annessione delle 4 regioni ucraine solo in parte occupate. Per ora, il primo ostacolo alla pace rimane chi ha scatenato la guerra.