di Massimo Arcangeli
Il rimbalzello
L’apologeta cristiano Minucio Felice, in un dialogo (Octavius, III, 5-6) trascritto in coda ai sette libri dell’Adversus nationes di Arnobio (come liber octavus attribuito a quest’ultimo) nel solo codice sopravvissuto delle due opere, testimonia di un gruppo di bambini esultanti sul litorale ostiense, alle foci del Tevere, tutti presi a far saltellare sassi piatti sulla superficie dell’acqua:
Sed ubi eundi spatium satis iustum cum sermone consumpsimus, eandem emensi viam rursus versis vestigiis terebamus, et cum ad id loci ventum est, ubi subductae naviculae substratis roboribus a terrena tabe suspensae quie scebant, pueros videmus certatim gestientes testarum in mare iaculationibus ludere. Is lusus est testam teretem, iactatione fluctuum levigatam, legere de litore, eam testam plano situ digitis comprehensam, inclinem ipsum atque humilem quantum potest, super undas inrotare, ut illud iaculum vel dorsum maris raderet enataret, dum leni impetu labitur, vel, summis fluctibus tonsis, emicaret emergeret, dum adsiduo saltu sublevatur. Is se in pueris victorem ferebat, cuius testa et procurreret longius et frequentius exsiliret.
(“Lungo il cammino, dopo aver consumato parlando un tempo sufficientemente congruo, nel rifare la stessa strada abbiamo ricalcato le [nostre] orme nella direzione inversa, e giunti in quel luogo, dove piccole imbarcazioni tratte in secco erano tenute al riparo dal terreno melmoso grazie ai tronchi di quercia sui quali giacevano, scorgiamo dei bambini festanti che facevano a gara a lanciare in mare dei cocci. Quel gioco consiste nel raccogliere sul lido dei ciottoli lisci, levigati dal moto ondoso, nel tenerli fra le dita in posizione orizzontale, i più radenti e inclinati possibile, e nel farli rimbalzare sulle onde, perché quelle piastrelle scivolino sul pelo della superficie marina, rimanendo a fior d’acqua, quando siano mosse da una debole spinta, oppure, fendendo la cresta delle onde, tenute a galla dai frequenti salti, schizzino in alto. Si proclamava vincitore quel bambino il cui sasso fosse finito più lontano e avesse fatto un maggior numero di rimbalzi”).
Poco più avanti (IV, 1) l’autore confessa di esser rimasto gioiosamente coinvolto dal gioco al pari di Ottavio, il personaggio cui è intitolata l’opera. Il passatempo – se non erano sassi potevano essere conchiglie – era già familiare agli antichi Greci. Il termine per indicarlo era ἐποστρακισμός, attestato nell’Ὀνομαστικόν (IX, 118 e 119) del grammatico e lessicografo di Giulio Polluce, vissuto nel II secolo d. C. È appena un esempio dei tanti giochi, passatempi, trastulli condivisi da bambini, adolescenti o adulti greci e romani.
Fra schiaffi e inseguimenti
Il verbo greco κολλαβίζω, anche questo documentato nell’Ὀνομαστικόν di Giulio Polluce, significava ‘giocare allo schiaffo del soldato’. Il gioco era praticato come oggi da tre o più partecipanti, sia in Grecia sia a Roma, e anche allora chi stava con le mani (o una benda) sugli occhi doveva indovinare chi gli avesse assestato lo schiaffo.
Nel poeta Orazio compare l’immagine fanciullesca della cavalcata di una canna (Sermones, III, 2, v. 248) e Valerio Massimo, nei Facta et dicta memorabilia (VIII, 8), dice di Socrate che facesse divertito il cavalluccio davanti ai suoi figli piccoli, alla presenza di Alcibiade, proprio a cavalcioni di una canna. L’aneddoto sarebbe poi stato ripreso in epoca medievale da Giovanni del Galles e Vincenzo di Beauvais (Speculum historiale).
In greco, attesta ancora l’opera di Polluce, il suo nome era βασιλίνδα. Era il “re e servitore”, un gioco di imitazione in cui, come in analoghi giochi infantili (“prigioniero e carceriere” e “schiavo e padrone”), il servo obbediva e il sovrano comandava. Tacito, negli Annales (XIII, 15), racconta di come nell’antica Roma ci si giocasse soprattutto durante i Saturnali. Nerone, racconta Svetonio (De vita Caesarum, VI, Vita Neronis, XXXV), aveva ordinato ai suoi schiavi di annegare un ragazzino mentre pescava, perché in quel gioco osava fare l’imperatore o il generale. Si trattava di Rufrio Crispino, figlio di Poppea e figliastro dell’imperatore.
Infine il nascondino. In greco – ce lo dice sempre Polluce – era ἀποδιδρασκίνδα (alla lettera: ‘correndo via’), derivato avverbiale di ἀποδιδράσκω (‘fuggire’, ‘scappare’). Famosa l’immagine dei tre amorini – uno s’è già nascosto, un altro si appresta a farlo, il terzo si copre il viso con le mani per non guardare (fig. 1) – di un affresco ercolanense del I sec. d. C. conservato a Napoli (Museo Archeologico Nazionale). Tutto il mondo (classico) è paese.