Diciannove corpi non sono mai stati restituiti dal mare. Forse non sono neanche 19 ma di più, chi lo sa. Quella notte a bordo del Norman Atlantic, avvolto dalle fiamme come una torcia nel canale d’Otranto in burrasca, c’erano anche clandestini. Alcuni si salvarono gettandosi nelle acque gelide, altri hanno trovato la morte mentre dormivano nascosti nei garage, lì dove l’incendio iniziò a propagarsi alle 3.09 del 28 dicembre 2014. Tra loro c’era il piccolo Raed Mohammad, anni 7, fuggito dalla Siria e inghiottito per sempre dal rogo del traghetto dell’Anek Lines. È passato un decennio, oggi sarebbe quasi maggiorenne.

Il tempo ha cancellato le accuse
Il suo decesso e quello di altre 30 persone che erano a bordo della motonave, partita da Patrasso e diretta ad Ancona, non hanno alcun colpevole. In dieci anni la prescrizione e un groviglio di norme, questioni tecniche e procedimentali hanno via via cancellato la giustizia. Quando il 6 ottobre dello scorso anno il Tribunale di Bari, presieduto da Marco Guida, ha pronunciato la sentenza di primo grado per uno dei più grandi disastri della marineria italiana non ha potuto far altro che dichiarare decadute a causa del trascorrere del tempo perfino le accuse di omicidio colposo di tutti gli imputati che ne rispondevano.

Il processo (ancora in corso)
Compresi gli unici tre che, alla fine, sono stati riconosciuti colpevoli dell’incendio e del naufragio, in attesa del secondo grado: il comandante Argilio Giacomazzi, il primo ufficiale di macchina Gianluca Assante e il membro dell’equipaggio Francesco Nardulli, condannati a pene comprese tra 3 e 6 anni. Tolte singole assoluzioni nel merito – come quella dell’armatore Carlo Visentini – il resto delle sentenze di non colpevolezza è uno sterminio di prescrizioni e di “violazione del divieto di secondo giudizio”. Per dire: i funzionari dell’Anek Lines, la società che aveva noleggiato il traghetto, erano già stati processati in Grecia per la stessa vicenda. Pene simboliche, le loro: condannati a 16 anni di carcere, poi ridotti a 5, hanno potuto convertirle in 36mila euro di sanzione. Una cifra sufficiente agli otto imputati per uscire dal giudizio sul versante italiano. La procura di Bari è ricorsa in appello – fissato ad aprile 2025 – contro il loro stralcio e l’assoluzione di Visentini.

La ricostruzione cristallizzata
Al momento di quel rogo, che scioglieva le scarpe dei 500 passeggeri e membri dell’equipaggio, nelle aule dei tribunali è rimasta una fiammella e poco più. Nonostante fossero chiare da anni le responsabilità storiche del disastro, messe nero su bianco da molti naufraghi già nei verbali raccolti dalla polizia giudiziaria subito dopo il loro sbarco nei porti di Bari e Brindisi, dopo due giorni di angoscia e paura su un traghetto avvolto dalle fiamme nel mare forza 7, mentre uno a uno venivano salvati col verricello dagli elicotteri dell’Aeronautica. La catena di errori fu poi cristallizzata in una maxi-perizia dei consulenti del giudice per le indagini preliminari. Tutto ha retto al vaglio del procedimento, mentre i reati pian piano si estinguevano.

Gli errori e l’allarme
Resta una sentenza che restituisce in chiaro la violazione delle regole a bordo, gli errori grossolani dell’equipaggio e del comandante, il tentativo perfino di scaricare la colpa sui clandestini, sfiorati dall’ipotesi di aver acceso un fuoco per scaldarsi dando il là al naufragio. Invece no. Tutto iniziò alle 3 quando da un camion che trasportava pesce fresco si sprigionò il primo fumo. Il motore diesel del refrigeratore era rimasto acceso perché le spine a bordo non bastavano. Tuttavia era stato fatto imbarcare ugualmente, come altri venti nelle stesse condizioni. Una placida violazione delle regole di bordo, l’innesco del disastro. Alle 3.09 le prime avvisaglie: “Vieni, vedi quel finestrone, è fumo”. Alle 3.26 il comandante lanciò l’allarme, ordinando di attivare l’impianto antincendio. Il camion che andava a fuoco era sul ponte 4, ma fu messo in funzione quello del ponte 3.

I soccorsi in condizioni proibitive
Così le fiamme continuarono a gonfiarsi per quasi un quarto d’ora prima che qualcuno si accorgesse dell’errore. Alle 3.53 la richiesta di soccorsi alla Guardia costiera: “La situazione è davvero grave. Abbiamo il lato dritto della nave completamente fuori uso, completamente invaso dal fuoco. Siamo anche in blackout”, disse il capitano Giacomazzi parlando con la terraferma. Da quel momento, scattarono i soccorsi in condizioni proibitive. Brindisi, la città più vicina, era spazzata da una bufera di maestrale e la neve iniziava a fare capolino in uno dei dicembre più freddi che la Puglia ricordi.

Un giorno di buio
Per oltre ventiquattr’ore – mentre i rimorchiatori della famiglia Barretta “giravano” il Norman Atlantic per cercare di proteggerlo dal vento che alimentava le fiamme e gli elicotteri trasportavano lentamente le persone via da quella trappola di fuoco – a terra nessuno aveva realmente saputo cosa stesse accadendo. A raccontarlo ci pensarono i primi 49 passeggeri arrivati a Bari a bordo della Spirit of Piraeus, una delle navi cargo che recuperarono i pochi che riuscirono a mettere in mare una scialuppa di salvataggio: “Ho visto 4 morti”, disse uno di loro iniziando a dare una vera proporzione alla tragedia.

Le colpe del comandante
Alcuni testimoni raccontarono di aver tentato di collegare i cavi di rimorchio del Norman Atlantic ai primi mezzi di soccorso, mentre l’equipaggio latitava
. Furono giorni e notti di lotta contro il tempo per decine di uomini e donne impegnati nei soccorsi, fino a quando non abbandonò il traghetto anche Argilio Giacomazzi. Il comandante è stato giudicato colpevole dai magistrati per “aver trasgredito o comunque non aver fatto rispettare il divieto di tenere in funzione i motori durante la navigazione”. Il capitano “avrebbe potuto decidere di non partire o dare l’ordine di fare spegnere tutti i motori in funzione qualora ne fosse stata constatata la presenza dopo che la nave era ormai partita: questo avrebbe evitato” l’incendio e tutto ciò che ne seguì.

Le fughe in avanti su Giacomazzi
E pensare che in quei giorni l’Italia, con ancora negli occhi la fuga di Francesco Schettino dalla Costa Concordia, lo celebrò come un modello per essere sceso per ultimo dal Norman Atlantic, il minimo sindacale richiesto al comandante di una nave. I ministri Maurizio Lupi e Roberta Pinotti lo ringraziarono pubblicamente, l’allora assessora regionale della Liguria Raffaella Paita, spezzina come lui, ebbe a dire in un moto d’orgoglio campanilistico: “Non tutti i capitani sono uguali”. Beato il Paese che non ha bisogno di eroi.

X: @andtundo

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