E’ diventata ormai un luogo comune, quasi sempre soffuso di passatismo nostalgico, la lagnanza sul fatto di vivere in un’epoca “senza maestri”. Ma è davvero così? Molto dipende da cosa si intende per maestri e da dove andiamo a cercarli. Che si viva, da tempo, in un’età post-ideologica, orfana delle grandi narrazioni novecentesche, è un dato di fatto. Come pure la crisi della figura (l’intellettuale, il maître à penser) che era stata sicuramente una protagonista, nel bene e nel male, delle vicende storiche e culturali del secolo scorso.

Se poi guardiamo al piccolo mondo del teatro, la sensazione di orfananza, di perdita di riferimenti inoppugnabili, appare diffusa e non da oggi. Quasi trent’anni fa, mi trovai a parlare di un teatro, quello di fine secolo, “dopo i maestri”. Intendendo con questo non che i maestri non ci fossero più, o non ci fossero stati, ma che la nuova generazione teatrale, quella che aveva debuttato negli anni Novanta, tendeva a farne a meno, a presentarsi orfana appunto, per meglio sottolineare una discontinuità rispetto ai modelli e alle tendenze che avevano dominato la scena dal dopoguerra in avanti, insomma la necessità di un azzeramento e di una ripartenza alleggeriti dal fardello della tradizione, fosse pure quella del nuovo, dalla neo-avanguardia al Terzo Teatro.

Dunque, una condizione più scelta che subìta, più soggettiva che oggettiva. Perché intanto i maestri, o comunque vogliamo chiamare le figure più prestigiose della scena contemporanea, continuavano a esistere e ad operare: da Carmelo Bene a Luca Ronconi, da Dario Fo a Leo de Berardinis, da Jerzy Grotowski a Eugenio Barba, da Peter Brook ad Ariane Mnouchkine.

Nel 2023 è uscito un libro “inattuale”, di cui sono autori un attore regista, Corrado D’Elia, e un regista direttore, Sergio Maifredi, i quali sulla questione vanno decisamente controcorrente, partendo dalla convinzione che i maestri esistono eccome e ce n’è ancora un gran bisogno (Strade maestre. I Maestri del teatro contemporaneo, Cue Press). Tant’è che decidono di viaggiare in tutta Europa per incontrarli. Fra l’altro, ciò accade proprio nel momento meno propizio per girare il mondo, il periodo della pandemia da Covid 19, fra 2021 e 2022.

D’Elia e Maifredi si mettono in viaggio avendo stilato la loro lista e, nonostante le gravi difficoltà del momento, riusciranno ad incontrarli tutti tranne uno, il russo Lev Dodin, che non il Covid ma lo scoppio della guerra in Ucraina renderà impossibile raggiungere. In ordine di apparizione nel libro abbiamo: Peter Stein, Eugenio Barba, Stefan Kaegi (Rimini Protokoll), Thomas Ostermeier, Ariane Mnouchkine, Milo Rau, Antonio Latella, Krzysztof Warlikowski.

Alle interviste, ampie e ricche di spunti, si aggiungono brevi annotazioni introduttive e conclusive, molto legate alla città in cui si svolge l’incontro e alle sue suggestioni. Le conversazioni non seguono sempre lo stesso schema, adattandosi alla personalità di ciascuno degli intervistati. Ma hanno ovviamente dei motivi ricorrenti, come l’intreccio fra arte e vita, il lavoro con gli attori e il rapporto con gli spettatori.

Naturalmente il vero leitmotiv è costituito dal tema dei maestri, riproposto con forza ad ogni incontro. Tuttavia le risposte che i due ottengono non sono forse quelle che si aspettavano. Sono in pochi a condividere in pieno l’idea che la perdita o piuttosto il non riconoscimento dei maestri sia un danno serio per il teatro di oggi (Stein e in parte Mnouchkine). Prevale invece un certo distacco e una evidente evasività (Latella: “ho avuto degli shock, non propriamente dei Maestri”), che in qualche caso diventa aperto disinteresse (Warlikowski) o vero e proprio dissenso (Ostermeier: “Bisogna prendere le distanze da questo concetto di Maestro”). Colpisce, come al solito, la lucidità disincantata di Eugenio Barba, che, da vero maestro, prima elegge a propri maestri i suoi attori e poi aggiunge: “Per quanto riguarda gli eredi: non esistono in teatro, sono soltanto un’illusione. Pensate al povero Stanislavskij o a Brecht. La sola eredità che puoi lasciare è una coerenza di vita […]. Non ho voglia di eredi”.

Alla fine, il libro-viaggio trova il suo vero senso: “Ecco, quindi, che il nostro viaggio verso i Maestri ci si rivela ora per quello che davvero è stato: ancora una volta un viaggio di iniziazione, di realizzazione e di risveglio. […] Il viaggio, il chiedere e l’incontrare ci hanno rivelato noi stessi”.

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