In Europa muoiono ogni anno 35mila persone a causa della resistenza dei batteri agli antibiotici e l’Italia, purtroppo, su questo ambito detiene il primato: sono infatti 12mila i decessi a causa dell’antibiotico-resistenza. Morti che in parte si potrebbero evitare. Basti pensare che sarebbe possibile ridurre 135mila-210 mila infezioni ospedaliere annuali con una maggiore cura igienica e salvare 2.000 persone all’anno. I dati sono stati diffusi in occasione della giornata europea per la lotta all’antibioticoresistenza, che ricorre il 18 novembre, dall’ECDC- European Centre for Disease Prevention and Control, elaborati per l’Italia da Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco. Se non si rallenta la tendenza all’antibiotico-resistenza ciò provocherà oltre 39 milioni di morti nel mondo e sarà la prima causa di morte nel nostro Paese.
I batteri più diffusi
In cima alla classifica dei batteri più diffusi c’è la Klebsiella, che infetta le vie urinarie e provoca un’alta mortalità: il 50% dei casi; a seguire lo Pseudomonas che provoca infezioni osteoarticolari con mortalità ancora più elevata, il 70%; l’escherichia coli che porta diarrea anche sanguinolenta; il clostridium, che prolifera nell’intestino con una mortalità a 30 giorni vicina al 30%.
Numeri che allarmano
Secondo il rapporto dell’Ecdc elaborato da Aifa, nel biennio 2022-23, 430mila ricoverati nel nostro Paese hanno contratto un’infezione: l’8,2% del totale dei pazienti, rispetto a una media dell’Unione europea del 6,5%. Il nostro Paese si distingue anche per l’uso massiccio di antibiotici, che vengono somministrati al 44,7% dei degenti a fronte di una media europea del 33,7%. Questo impiego diffuso di antimicrobici ha un suo contraltare: fa nascere superbatteri resistenti agli stessi medicinali.
Più consumo al Sud
Negli ultimi due anni è aumentato l’uso di antibiotici: più di un paziente su tre (35,5%), contro il 32,9% del biennio 2016-17. Secondo il Rapporto Aifa, lo scorso anno quasi 4 persone su 10 hanno ricevuto almeno una prescrizione di antibiotico, con livelli più elevati al Sud, dove il 44,8% della popolazione ne ha assunto almeno uno nel corso dell’anno, contro il 30,9% del Nord e il 39,9% del Centro. La prevalenza nell’uso di antibiotici aumenta con l’avanzare dell’età, raggiungendo il 60% negli over 85. Nella popolazione pediatrica i maggiori consumi si concentrano nella fascia di età compresa tra 2 e 5 anni, in cui circa 4 bambini su 10 hanno ricevuto nell’anno almeno una prescrizione di antibiotici.
Gli errori: troppe prescrizioni
“L’antibiotico- resistenza è un fatto naturale, dobbiamo partire da questo dato per affrontare il fenomeno in modo corretto – spiega al FattoQuotidiano.it il professor Fabrizio Pregliasco, Direttore sanitario d’Azienda dell’IRCCS Ospedale Galeazzi-Sant’Ambrogio. – Ogni volta che esponiamo l’antibiotico al batterio, quest’ultimo cerca nel tempo di ‘aggirare’ la sua azione e renderlo inefficace”. Che fare? “Prima di tutto lavorare maggiormente sull’uso responsabile degli antibiotici e ricorrere a essi solo quando sono davvero necessari”.
Gli antibiotici si possono suddividere in farmaci di prima, seconda o terza scelta. Alla prima categoria appartengono gli antibiotici che hanno dimostrato di essere efficaci contro il patogeno sospettato o confermato, pensiamo per esempio alla penicillina. Alle altre categorie si ricorre in particolari situazioni, come una resistenza del batterio all’antibiotico di prima scelta, allergie o intolleranze del paziente al farmaco di prima scelta, fallimento del trattamento iniziale. Su questo aspetto l’Italia è uno dei Paesi europei che fa maggior ricorso a molecole ad ampio spettro, di seconda scelta, a maggior impatto sulle resistenze antibiotiche. Infatti nel nostro Paese la quota di consumo degli antibiotici del gruppo “Access”, considerati antibiotici di prima scelta, è del 47%, inferiore a quello che l’Oms raccomanda, ossia il 60% dei consumi totali. Di fatto, come informa Aifa, l’impatto di queste infezioni potrebbe essere ridotto di un buon 30% a partire proprio dall’appropriatezza nelle prescrizioni, tanto in ambito umano che veterinario. “Spesso l’approccio del medico di base verso il paziente è quello di farlo stare bene al più presto, per cui gli somministra il farmaco più sicuro per ottenere un risultato possibilmente rapido. Si tratta però di un approccio sbagliato perché risolve il problema a breve termine, ma porta nel tempo alla diffusione della resistenza agli antibiotici – continua Pregliasco. – Per esempio, nelle infezioni respiratorie c’è un 30% di prescrizioni inutili perché l’antibiotico viene somministrato a copertura di una possibile sovrainfezioni batterica successiva all’infezione respiratoria, legata nel 99% dei casi ai virus per il quale l’antibiotico è inutile; oppure sarebbe fondamentale eseguire un esame, l’antibiogramma, per stabilire quale antibiotico è più indicato per la specifica infezione, ma questo spesso non è possibile per il medico di famiglia e allora può succedere di prescrivere un antibiotico non adatto al caso specifico. Un altro errore è però legato all’atteggiamento del paziente: quando vede che già dopo due-tre giorni dalla somministrazione dell’antibiotico migliorano i sintomi, interrompe la terapia. Con il risultato che il batterio è ‘stordito’ ma ancora in grado di riprendersi potendo così evitare nel tempo l’azione antibiotica; infine, l’errore più grave è quando la terapia è portata avanti oltre il tempo necessario”.
Igiene e strutture ospedaliere: investire sul personale
“Diversi casi di infezioni dovuti infezioni alle vie urinarie sono provocati da una cattiva pulizia dei cateteri e da un’insufficiente cura delle ferite chirurgiche. Ma a volte a veicolare i microbi sono i mal tenuti sistemi di areazione dei nostri nosocomi, che hanno oramai un’età media di settant’anni”, segnala ancora Aifa. Bisogna però aggiungere che “Negli ospedali si possono contenere le infezioni, ma azzerarle è impossibile – aggiunge Pregliasco. – Per esempio, in alcuni casi riusciamo a evitare la cateterizzazione del paziente, ma non è sempre possibile. Tuttavia, al di là dei limiti delle nostre strutture, la fonte principale delle infezioni in ospedale è dovuta all’operatore che deve avere più cura nel contatto con la persona degente, a partire anche banalmente dall’uso dei guanti. Per cui una soluzione economica e di facile attuazione sarebbe quella di investire maggiormente sulla formazione del medico, ma anche del paziente, migliorando le informazioni sulle regole di prevenzione delle infezioni e sull’uso corretto degli antibiotici”.
Ridurre del 18% il consumo entro il 2030
Per contrastare l’antibiotico-resistenza, l’Ecdc fissa alcuni obiettivi che riguardano anche l’Italia da raggiungere entro il 2030: riduzione del 18% del consumo di antibiotici a uso umano; portare almeno al 65% del consumo totale di antibiotici del gruppo “Access”, di prima scelta, e a un prezzo accessibile. Ma bisogna anche spingere la ricerca di base puntando su incentivi “che consentano da un lato di semplificare, dall’altro di velocizzare i tempi di approvazione di nuovi antimicrobici in grado di aggirare le resistenze batteriche”, sottolinea il presidente di Aifa, Robert Nisticò.
L’uso di antibiotici negli allevamenti
Una parte del problema dell’antibiotico-resistenza è dovuto anche all’uso degli antimicrobici negli animali destinati alla produzione alimentare, per i quali sono impiegate le stesse classi di antibiotici usati in medicina umana; ecco perché questi animali possono trasmettere batteri resistenti agli stessi antibiotici usati per trattare le infezioni umane. Su questo fronte sono state elaborate dal Comitato tecnico per la nutrizione e la sanità animale, istituito presso il Ministero per la Salute, una serie di indicazioni utili per prevenire l’uso inappropriato di antimicrobici che, in medicina veterinaria, rappresenta un rischio concreto per la salute animale e per gli allevatori ed è responsabile sia della riduzione delle produzioni che dell’inefficienza degli allevamenti.