Come raccontarlo, l’anno che sta finendo, dal punto di vista dei diritti umani?
Iniziando dalla fine: dal 25 aprile della Siria che ha posto termine a una dittatura dinastica durata oltre mezzo secolo. Diciamolo chiaramente, senza timore di essere smentiti: non potrà mai esserci nulla peggio degli Assad padre e figlio. Peggio di quasi 30 anni di presenza militare in Libano, peggio delle città rase al suolo o assediate e ridotte alla fame per anni, peggio degli oltre 100.000 scomparsi, peggio del mattatoio di Saydnaya, peggio della fuga in altre zone della Siria o all’estero di oltre metà della popolazione.
Le diplomazie europee, a parole, sono preoccupate. Nei fatti, invece, non vedevano l’ora di potersi liberare dell’accollo di rifugiati e richiedenti asilo siriani, tanto che la prima reazione – neanche 48 ore dopo il rito dell’abbattimento delle statue di Bashar al-Assad – è stata la sospensione delle procedure d’asilo.
A preoccupare le organizzazioni per i diritti umani non è tanto la furia della rimozione dei simboli di un regime odiatissimo, quanto quella con cui si stanno cancellando le prove dei suoi crimini e, con esse, la possibilità di processarne i responsabili. Tre organizzazioni per i diritti umani appena rientrate da Damasco hanno visto, sgomente, interni archivi e registri incustoditi (altri sono stati dati alle fiamme dalle ex direzioni delle carceri), documenti di rilevante importanza saccheggiati o portati via (persino da giornalisti alla ricerca di scoop), fosse comuni scavate a mani nude da familiari alla ricerca disperata dei resti dei loro cari. Se questi siti non saranno messi in sicurezza, se la documentazione coi nomi dei detenuti – la data d’ingresso compilata e quella di uscita no – non sarà conservata insieme ad altre prove, solo in pochi casi si conoscerà con certezza la sorte dei desaparecidos e si potranno fare processi.
Sempre intorno alla fine dell’anno, Amnesty International e Human Rights Watch si sono aggiunte a coloro che da mesi erano giunti alla conclusione che Israele ha commesso e sta commettendo genocidio nei confronti della popolazione palestinese della Striscia di Gaza occupata. La pietra di paragone delle organizzazioni per i diritti umani non è la Storia, ma il Diritto: esattamente quella Convenzione sul genocidio del 1948 che la Storia ha reso così terribilmente necessaria. Le prove degli atti di genocidio e dell’intento genocida si trovano tanto nella condotta delle operazioni militari quanto nella pletora di dichiarazioni di alti rappresentanti dello stato israeliano.
Per il resto, un’Iran sempre più indebolito dal contesto regionale ha deciso di stringere ulteriormente la morsa nei confronti delle donne, con nuove norme entrate in vigore e altre provvisoriamente sospese, e di ricorrere sempre più alla pena di morte: alla fine del 2024 il record dell’anno scorso di oltre 850 impiccagioni risulterà, quando le organizzazioni per i diritti umani avranno terminato di raccogliere i dati, superiore.
L’Arabia Saudita si appresta a ospitare l’ennesima edizione della Supercoppa italiana di calcio e si è assicurata i Mondiali del 2034, confermando che lo sportwashing è una delle chiavi più efficaci della politica estera del principe della Corona Mohamed bin Salman.
Gli stati amici e “sicuri” dell’Italia hanno continuato a reprimere i diritti umani: in Egitto le prigioni restano piene (per un detenuto scarcerato, ne entrano almeno altri due) e rimane illegalmente recluso Alaa Abd el-Fattah, il “Gramsci d’Egitto”; in Tunisia non è minimamente possibile esprimere dissenso nei confronti del presidente Kais Saied.
Quanto alla Libia, il governo ammicca alle norme iraniane contro le donne. Migranti e richiedenti asilo continuano a essere torturati e molti di quelli che riescono a partire vengono catturati dalla cosiddetta guardia costiera libica o annegano. Ma questo non fa ormai più notizia.
C’è qualcosa di buono da ricordare di quest’anno?
Una storia conclusasi bene. Il 26 agosto è stato scarcerato l’attivista egiziano Mahmoud Hussein, arrestato più volte per aver indossato una maglietta con la scritta “Per una nazione senza tortura”. Il 26 giugno era stato condannato a tre anni di carcere, esauriti – nel suo caso, a differenza di quello di Alaa Abd el-Fattah – sommando il periodo di detenzione preventiva a quello trascorso in prigione dopo la sentenza.