Un centro di maternità tra le montagne, gestito per la maggior parte da donne e rivolto alla cura delle donne in un Paese dove è stato deciso che non possono studiare. E presto sarà sempre più difficile anche lavorare. Le parole per raccontare l’ospedale di Anabah, creato e gestito dalla ong Emergency nella valle del Panshir in Afghanistan, non sono sufficienti. Non rendono la potenza di un progetto che, senza bisogno di proclami e con grande attenzione per i bisogni della popolazione, continua a lavorare sul territorio dal 2003. Oltre 70mila i bambini nati tra quelle mura, quasi 6mila e 500 solo l’anno scorso, e più di 470mila le visite effettuate. Un ospedale che offre cure di qualità in un Paese a risorse limitate e che funziona quasi interamente grazie al personale afgano: “Le nostre dottoresse, ostetriche, infermiere fanno anche due ore di viaggio per arrivare a lavorare da noi”, racconta Raffaela Baiocchi, ginecologa responsabile dei progetti di salute della donna di Emergency.

Un personale che qui viene formato continuamente e preparato a una gestione in autonomia della struttura, nonostante le limitazioni che arrivano dall’alto. Il centro di Anabah – intitolato alla ricercatrice e volontaria Valeria Solesin – è un luogo dove le donne si battono per continuare a lavorare perché lì “sentono di poter fare la differenza”. Uno spazio dove il solo fatto di esserci è diventata un’azione di resistenza: “Quel fronte lo difendiamo con le unghie e con i denti”. Anche se il futuro è e resta la più grande incognita: “Abbiamo almeno cinque dottoresse in attesa di essere abilitate per lavorare”. Aspettano, ma le speranze sono sempre meno. “Servono le donne per tenere in piedi il sistema sanitario, per tenere in piedi la società”, chiude Baiocchi. E fa un appello: “L’Afghanistan non sia dimenticato”.

Foto di Laura Salvinelli

La Repubblica Islamica ha appena ordinato la chiusura delle ong che impiegano donne. Cosa succederà al centro di Anabah?
Non è la prima volta che i vertici dell’Emirato tuonano in questa direzione. Un proclama simile era stato diffuso tempo fa, ma le ong operanti nel settore sanitario erano state esentate. Questo nuovo decreto è freschissimo e non abbiamo ancora ricevuto nessun ordine applicativo in merito: restiamo in allerta e continuiamo a fare il nostro lavoro, sperando si risolva in un nulla di fatto. Il Paese è inquieto, e anche tra i gruppi dirigenti, a tutti i livelli, le visioni sono divergenti e talvolta conflittuali sul tema.

Finora cos’è cambiato con l’arrivo dei talebani al potere?
Non avevamo avuto grandi scossoni. Nei posti dove facevamo chirurgia di guerra, quindi a Kabul e nel Sud del Paese, abbiamo riconvertito le attività. E ci sono comunque sempre feriti a causa della grande diffusione di armi. Dopodiché, la nostra decisione politica, ma anche pratica, è stata quella di espandere i servizi per le donne.

Cosa significa?
Dove eravamo già abbiamo cercato di assumere più ostetriche possibile, ma anche educatrici sanitarie. E nel Sud, ovvero la zona tradizionalmente più conservatrice, abbiamo aperto nuovi ambulatori. Qui abbiamo trovato una situazione inaspettata: c’erano già scuole pubbliche di ostetriche, in cui si parlava di contraccezione. E gli stessi direttori, le mostravano orgogliosamente. Poi dieci giorni fa, è arrivato il nuovo divieto che chiude anche queste.

Come è possibile?
Tocchiamo ogni giorno con mano le profonde contraddizioni. E noi andiamo avanti. Quel fronte lo difendiamo con le unghie e con i denti. Per il momento ci è solo stato chiesto di riadattare i nostri ambulatori per separare uomini e donne più nettamente di quanto già non si facesse. Ma per il resto nessuno ha impedito alle lavoratrici di andare a lavorare o alle pazienti di accedere all’ospedale. Solo ultimamente, osserviamo donne con quadri molto gravi di malnutrizione. Negli ultimi mesi sono state meno di dieci, ma non le avevamo mai viste prima ed è un segnale. Sono in una chat con le dottoresse afgane per monitorare i casi: l’altro giorno hanno ricoverata una donna di circa 31kg. Una collega ha scritto: “Another one”, un’altra.

Foto di Carlotta Marrucci

È un allarme che riguarda solo le donne?
La popolazione sta soffrendo moltissimo. La disoccupazione galoppa: gli uomini erano principalmente impiegati nella sicurezza, ora molti sono a casa. E questo nonostante i talebani abbiano approvato delle leggi per redistribuire i posti di lavoro. Noi abbiamo ostetriche che sono le uniche in famiglia a riportare uno stipendio a casa.

Com’è la situazione per la formazione delle donne?
Al momento l’unica possibilità per la formazione femminile, a parte quella primaria, è la scuola di specializzazione in ginecologia e ostetricia. Noi ne gestiamo una e in più cerchiamo di formare chi già lavora con noi: le nostre dipendenti sono bravissime, con tanta voglia di imparare e c’è una grandissima richiesta di corsi di formazione e aggiornamento.

Come vede il futuro?
Continuiamo per la nostra strada finché non ci bloccano. Ci sono leggi a livello nazionale e organi che le fanno rispettare con ispezioni e sanzioni, però c’è anche chi nell’apparato non è d’accordo. Molto recentemente abbiamo avuto visite di pezzi molto grossi nella nostra maternità e non dico che si sono commossi, però ci hanno detto “andate avanti”. È ovvio che uno cammina sulle uova. Però noi respiriamo un grande conflitto interno: la linea sulle donne è minoritaria, ma del gruppo predominante. Chi può preserva gli spazi di libertà, facendo finta di niente. Non so però fino a quando durerà.

E se non dura?
Il giorno in cui finiranno le dottoresse già laureate che possono accedere alla specializzazione, anche quella scuola si chiuderà. A ottobre sono andata in Afghanistan ed ero positiva: abbiamo assunto due dottoresse che da due anni aspettano di fare l’esame di Stato. Per due anni hanno detto loro: per ora non lo fate, ma poi si vedrà. C’è sempre stata la speranza e, a ottobre scorso, era stata annunciata una data. Poi, invece, è arrivato il divieto. E due giorni dopo c’è stata la convocazione solo per gli studenti maschi. Siamo piombati nella disperazione. Se qualcosa non cambia, presto saremo in crisi. Oltre al fatto che anche se domani dovessero riaprire tutto, ci sono tre anni di gap durante i quali non hai fatto studiare le donne.

L’ospedale di Anabah funziona grazie alle donne afghane?
Il personale sanitario è composto da 130/140 donne e con chi pulisce la struttura, ed è fondamentale, sono circa 170. Poi ci sono le infermiere nei dipartimenti pediatrici e chirurgici. Chi si occupa di donne sono donne. Quindi non è solo la salute riproduttiva che viene colpita, ma tutta l’assistenza sanitaria. Chi le lava, chi le tocca, sono donne. Ma abbiamo anche uomini. Ad esempio, ho parlato con una donna incinta, molto istruita, che è venuta per una visita da noi: suo marito, un tipo molto conservatore, l’aveva portata anche da un ginecologo nella capitale a fare i controlli. Se un medico uomo è bravo, anche i più conservatori, in città, ci portano le mogli. Però, sicuramente, in futuro la sanità non può stare in piedi senza le donne. Servono per tenere su la società, non si può pensare che i lavori di cura li facciano solo gli uomini. E sicuramente non in una maternità, dove c’è maggiormente l’esposizione del corpo della donna: nelle zone rurali nessun marito porterebbe la moglie da un ostetrico.

Foto di Stefanie Glinski

È difficile per le donne venire a lavorare ad Anabah?
Quasi tutte le dottoresse, ostetriche e infermiere che lavorano per Emergency vivono molto lontano. A loro servono almeno due ore di trasporto per arrivare. Ma qui respirano un’aria internazionale, fanno formazione. Sentono che hanno i mezzi per poter fare la differenza: siamo in un Paese a limitate risorse, ma non siamo un ospedale a limitate risorse.

Quanto è importante per loro questo impiego?
Faccio un esempio. Una nostra dottoressa viveva con la famiglia del marito. Il suocero, con due mogli, aveva una clinica privata per cui lei faceva attività libero professionale e insieme lavorava ad Anabah. Di solito veniva aiutata dalle suocere a tenere i figli. Con l’arrivo dell’Emirato, il suocero le annuncia che non l’avrebbero più aiutata. Lei ha chiesto allora di fare i turni il giorno in cui le sue sorelle erano libere: viaggiava tra le province per portare a loro i suoi bimbi e poi venire in ospedale. Dopo il primo mese era distrutta: abbiamo creato uno spazio interno per tenerle i figli e lei ha strappato con la famiglia. Tutto perché lei voleva decidere da sola dove e con chi lavorare.

E se le leggi dovessero essere sempre più severe?
Io comincio già a pensare a come poter portare avanti il progetto tra dieci anni. Ora non riesco neanche a fare un piano dell’organico futuro. Quando sono arrivata, era il 2007, venivamo dopo un periodo di chiusura a causa del sequestro Mastrogiacomo: abbiamo davvero ricominciato tutto da zero. Cercavamo ragazze che sapessero leggere e scrivere e che potessero lavorare la sera. Speriamo di non dover tornare a quella situazione di deserto. Al momento abbiamo almeno cinque ragazze laureate in medicina e che non vengono abilitate all’esercizio della professione. E nel mentre non possono praticare.

Come resistono?
Per noi è facile perché abbiamo scelta. Io lo faccio perché è un Paese che amo molto e ormai mi sento parte della famiglia. Ma se penso al loro futuro, se penso alle persone intrappolate in leggi assurde, sto male. Finora, per chi lavora e non ha figli o ha figli maschi, la vita non è cambiata tantissimo. Per chi invece deve completare il proprio percorso formativo, ha altre ambizioni o ha figlie femmine, è cambiato tanto: c’è chi ha già lasciato il Paese o cerca di farlo. Mi dicono: “Rimarrei, ma ho le bimbe piccole, che futuro avranno?”.

Ci siamo dimenticati dell’Afghanistan?
È una realtà dimenticata perché, nel mondo, ne stanno succedendo di tutti i colori. In Afghanistan il dramma ora è la povertà, ma anche una guerra alle donne complessa da combattere. Per questo non deve essere dimenticato. Perché, tra le altre cose, ha un record: è l’unico Paese al mondo in cui alle donne non è concesso di studiare e, quindi, di costruire la società. Bisogna continuare a parlarne. Perché se le donne riprendono il loro posto, può solo fare del bene a tutto il Paese.

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