Penso che ci sia una ristrettezza di vedute nella strumentalizzazione dell’arresto di Cecilia Sala per fare polemiche contro il movimento femminista. “Dove sono le femministe?” ora se lo chiede anche Davide Varì, direttore de Il Dubbio in un articolo e anche in un intervista su Radio Radicale: come mai “le femministe che avevano incendiato l’agorà virtuale con i loro hashtag sul Me Too” tacciono sul sequestro di Cecilia Sala? Scrive Vari: “Dove sono le voci indignate? Quelle che gridano, spesso giustamente, per ogni ombra di maschilismo occidentale ma che si inceppano davanti a un regime che chiama ‘polizia morale’ i suoi aguzzini? Dov’erano quando Mahsa Amini è stata uccisa perché la sua hijab non era abbastanza ‘ordinato’? Forse il loro vocabolario non prevede voci per l’Iran per la violenza patriarcale che si nasconde dietro le barbe degli ayatollah”.

Il direttore lancia alle femministe del “Me Too” accuse di ipocrisia, e nientepopodimeno, di “complicità” con il regime iraniano. A chi si riferisce il direttore del Dubbio? Il movimento delle donne è un universo del quale pare non avere la minima contezza. Tanto da non sapere quante iniziative vennero prese nel nostro Paese, dal settembre del 2022, dopo la morte di Mahsa Amini. La manifestazione dell’8 marzo del 2023 fu interamente dedicata alle donne iraniane al grido di “Donna, vita, libertà”. Così come il direttore ignora la mobilitazione che venne fatta per Nasrin Sotoudeh o la presa di parola delle centinaia di donne della rete DiRe in solidarietà a Cecilia Sala.

Nel frattempo sui social, campione tossico delle emozioni che attraversano il Paese, il sequestro di una donna è motivo di misoginia e di una rabbia sorda che inquieta e che non si placa. Ci sono quelli che augurano la reclusione a vita nelle carceri iraniane alla giornalista italiana. La sua colpa? Essere una donna e avere aver scritto articoli che non piacevano agli odiatori. Altri le hanno rinfacciato, irridendola, di non essere rimasta a casa, come reclamerebbe la sua condizione di donna.

Qualcuno è andato a ripescare un tweet, scritto dalla giornalista nel 2013, sull’arresto in India dei due marò per ritorcerglielo contro. Lo ha fatto anche Libero in un articolo del 28 dicembre. Tra quelli che amano rinfacciare parole ad una donna che non può replicare perché reclusa senza sapere se ne uscirà viva, ci sono anche dei politici. Marco Rizzo ne ha invocato la liberazione ma, nello stesso tempo, si è preoccupato di ricordare il tweet sui marò. Si può immaginare quali commenti abbia ispirato l’ex deputato.

In mezzo a questo pantano di borborigmi in cui sguazzano gli odiatori (o le odiatrici), le donne sono sempre al primo posto della classifica, ma per Davide Varì, il problema sarebbero le femministe. Ce l’ha col Me Too senza sapere che il Me Too in Italia non c’è mai stato. Le poche donne che osarono denunciare personaggi pubblici, nel belpaese, sono state attaccate ferocemente e messe alla berlina sulle pagine di parecchi quotidiani o in trasmissioni televisive. Il Time, invece, le chiamò “silence breaker” e le mise sulla copertina che elegge la persona dell’anno.

Ci sarebbe da dire molto sulla vittimizzazione dei media quando colpisce le donne che denunciano stupri o sullo strisciante sostegno che trovano uomini accusati di violenza quando hanno potere o hanno ruoli di prestigio. Basterebbe ricordare a quanto accaduto da poco con Caffo, che Varì difende ai microfoni di Radio Radicale, confondendo le acque e manipolando il caso, in nome del garantismo. La ragione della cancellazione dell’invito al festival Più libri, più liberi, dedicata ad una vittima di femminicidio non è stata dettata dalla condanna vox populi prima della sentenza ma da una questioni di opportunità. Ovvero di un livello che il direttore de Il Dubbio non riconosce e che non è giudiziale ma politico.

Varì conferma che persiste un problema culturale anche nel mondo del giornalismo e che si riflette con la marcata discriminazione di genere. I quotidiani italiani sono saldamente in mano agli uomini, solo sei donne alla direzione di testate contro 32 uomini. Il femminismo, caro Varì, non si pratica solo con gli hashtag. Vuole insegnare alle femministe come si fa politica, invitandole a essere grate per la gentile concessione di una parità che molto spesso resta scritta solo sulla carta? Non si tratta di qualche “ombra di maschilismo” o di una insignificante sbavatura sul trucco della democrazia. O di “sacche di maschilismo”, come ha detto a Radio Radicale.

Se vuole davvero misurare lo stato di salute di una democrazia, dia un’occhiata alla povertà delle donne italiane. L’Italia si è piazzata all’84imo posto nella classifica del Global Gender Gap Report del 2024. Il nostro Paese non si distingue affatto positivamente e non è particolarmente virtuoso nelle politiche contro la discriminazione ma è in buona compagnia con il resto del mondo dove il divario di genere è stato ridotto solo dello 0,1%. Si stima che ci vorranno altri 134 anni per raggiungere una piena parità.

Il femminismo con tutte le sue contraddizioni, i suoi limiti, i conflitti da cui è attraversato è un movimento che difficilmente si occuperà solo della violazione dei diritti umani delle donne che vivono nei regimi teocratici, come lei vorrebbe. Quei Paesi che lei indica come i veri nemici delle donne mentre gli altri, quelli occidentali sarebbero i Paesi buoni che le trattano bene, non le incarcerano, non le lapidano, non impongono il burqa e quindi è tutto grasso che cola. Che le donne si accontentino anche se l’aborto è di nuovo sotto attacco in tutto il mondo occidentale, e la violenza, le discriminazioni non sono minimamente intaccate e resistono. E i vari Caffo, Genovese, Pesci, e tutti gli illustri e civili uomini occidentali finiti sul banco degli imputati hanno usufruito di grande indulgenza sulla stampa italiana.

Varì insomma ha pure la faccia tosta di chiedere alle attiviste: “Care, spolveratemi l’Afghanistan e stiratemi con l’amido l’Iran ma non toccate l’argenteria sessista di casa, che quella la lucidiamo noi tutti i giorni”.

@nadiesdaa

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