A Kiev, il mancato rinnovo dell’accordo sul passaggio del gas russo dall’Ucraina verso l’Europa costerà 800 milioni ma viene presentato come “una delle grandi sconfitte di Mosca”. Il Cremlino, nonostante la perdita da 6,5 miliardi di dollari se non dovesse riuscire a rimpiazzare l’acquirente Ue, non si scompone, dato che ormai i flussi coprivano appena il 5% del fabbisogno europeo. E se i ‘falchi’ europei, polacchi e baltici in primis, esultano e Trump si struscia le mani al pensiero di maggiori guadagni, da Bruxelles si invita alla calma specificando che le scorte per l’inverno ci sono già e che canali di rifornimento alternativi sostituiranno quello russo.
Ma i mercati raccontano anche un’altra realtà che confligge col messaggio che le istituzioni europee stanno cercando di trasmettere ormai da anni: gli interessi dell’Ucraina non coincidono sempre con quelli dell’Unione europea. Basta guardare l’andamento dei prezzi. Dopo il calo costante nel post-pandemia, pur rimanendo elevato per gli standard pre-Covid, il costo del gas è tornato a salire dall’annuncio ucraino sul mancato rinnovo dell’accordo con la Russia, tanto da sfondare la soglia dei 50 euro al megawattora, registrando un record massimo dall’ottobre 2023.
Le rassicurazioni dell’Ue sulla disponibilità di materia prima per l’inverno e per gli anni a venire, quindi, non sono errate, ma non colgono uno dei punti principali del problema: l’aumento dei prezzi dovuto sia alla perdita, seppur limitata a 14 miliardi di metri cubi all’anno, di gas a basso costo, sia alla maggiore dipendenza da fornitori che, invece, applicano tariffe ben più elevate. Non è un caso, quindi, che a gioire maggiormente siano da una parte i Paesi dell’ex blocco sovietico, come la Polonia e i baltici, che da sempre mantengono una posizione allineata a quella di Volodymyr Zelensky, e dall’altra gli Stati Uniti che già assaporano l’aumento di forniture di gas liquefatto all’Europa.
Così facendo, Bruxelles accontenta le esigenze di due partner, ma non le proprie. Quelle dell’alleato Zelensky, sul quale ha deciso di scommettere la propria reputazione promettendo sostegno fino a quando necessario. Un whatever it takes che potrebbe anche costarle caro se la volontà di disimpegno di Donald Trump non dovesse tradursi in una tregua. L’altro alleato soddisfatto sono proprio gli Stati Uniti che, col tycoon pronto a subentrare a Joe Biden il prossimo 20 gennaio, già minacciano dazi e ritorsioni anche sull’Europa se non dovesse acquistare sufficienti scorte di petrolio e gas made in Usa.
Gli unici interessi che, invece, dovranno attendere sembrano essere proprio quelli che l’Europa dovrebbe preservare in primis, ossia quelli dei propri cittadini. Con l’innalzamento dei prezzi dell’energia, saranno diverse le conseguenze sugli abitanti dei 27 stati membri. La prima e più immediata sarà un rialzo delle bollette. Per fare un esempio, secondo il presidente di Nomisma energia, Davide Tabarelli, i rincari, dovuti sia alla speculazione sulle tensioni geopolitiche sia alla situazione meteorologica, porteranno per quest’anno una maggiore spesa per una famiglia italiana fra luce e gas di circa 300 euro.
L’altra conseguenza, che i cittadini percepiranno in maniera più diluita nel tempo, potrebbe essere un ulteriore aumento dei prezzi dei beni di prima necessità. Il maggior costo dell’energia farà crescere la spesa per la produzione di alcuni beni e servizi che potrebbe ricadere sul loro costo finale. Che questo scenario sia plausibile lo testimoniano anche le parole del ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin: il governo, ha detto, mantiene alta l’attenzione perché “è nostro dovere tutelare cittadini e consumatori da possibili futuri rincari dei prezzi”. E per questo ha ribadito “l’appello che come governo facciamo all’Europa” che “è di agire con soluzioni concrete, come quella dell’adozione del price cap, in grado di proteggere tutti i Paesi in egual misura con percorsi di regolamentazione e di obiettivo per la riduzione dei prezzi dell’energia”. Se non glielo faranno notare gli elettori, il rischio è che a bussare alla porta della nuova Commissione guidata da Ursula von der Leyen arrivino lobbisti e rappresentanti delle industrie europee preoccupati di diventare ancor meno concorrenziali rispetto ai loro rivali extracomunitari. Chissà se la pressione degli industriali, che è riuscita a convincere la leader tedesca e il suo partito europeo, il Ppe, ad annacquare il progetto del Green Deal Ue, potrà far cambiare loro idea anche sull’approvvigionamento di materie prime energetiche.