E se il campo principale della politica nazionale diventasse il Veneto? Il partito della presidente del Consiglio Giorgia Meloni non vuole sentir parlare di terzo mandato per i governatori sia che si tratti della Campania (e lì l’interessato, suo malgrado, è Vincenzo De Luca e la partita è tutta interna al centrosinistra) sia che si parli appunto della “locomotiva del Nord Est”, finora governata da Luca Zaia, riconfermato a suon di plebisciti e per questo eterna apparente alternativa alla leadership leghista di Matteo Salvini. Ora che il 2025 è arrivato il discorso si è fatto più esplicito: Fratelli d’Italia è di gran lunga il primo partito del centrodestra, come si è visto in questi due anni e mezzo è molto affamato e ora non si fa scrupoli nel chiedere quello che fino a qualche tempo fa sembrava indicibile, il ruolo di candidato alla presidenza in Veneto appunto. Sullo sfondo c’è che i tavoli per le Regionali sono stati il più visibile momento di alta tensione dentro la coalizione anche in questi 26 mesi di sintonia di governo. Intervistato dalla Stampa il ministro per i Rapporti con il Parlamento Luca Ciriani, molto vicino alla capa del governo, ribatte pronto più di Sinner alla proposta della Lega di rinviare le elezioni venete al 2026 (anziché nell’autunno prossimo come da programma) con varie motivazioni, dalle Olimpiadi di Milano-Cortina al risparmio sui costi elettorali (perché accorpati con le Comunali).

E Ciriani riconferma il no al terzo mandato per i governatori. Più chiaramente: “Mi pare impossibile pensare che non tocchi a noi indicare il nome”, e “non per rivincita o rivalsa, ma per oggettività”. Liquida come “provocazioni” eventuali puntigli dell’alleato e confida nella “discussione tra i leader” per superare l’impasse. Dalle parole ai fatti: già nei prossimi giorni il governo potrebbe impugnare davanti alla Corte costituzionale la legge della Campania che ha dato il via libera al terzo mandato di De Luca. Un favore alla segretaria del Pd Elly Schlein? Sì, volente o nolente. Ma anche la riconferma di un principio che da Napoli vola fino a Venezia. I parlamentari più vicini a Matteo Salvini continuano il loro pressing: per guidare una regione, contano più di tutto l’esperienza e la maturità di una classe dirigente, sostengono. C’è chi mette a verbale: “Sarebbe curioso che FdI guidasse il Veneto senza avere molti sindaci lì“. Nella ormai quotidiana diretta social proprio Salvini ricorda i “500 sindaci” che la Lega vanta in Italia. E’ una partita per Salvini che da centrale potrebbe trasformarsi in essenziale: va ricordato che poche settimane fa Massimiliano Romeo, capogruppo leghista al Senato, ha vinto il congresso in Lombardia in sella allo slogan “ora dobbiamo ricominciare a pensare al Nord”. Che tradizionalmente, nel linguaggio leghista, è traducibile anche con Lombardo-Veneto.

Già il caso ingarbugliato di Cecilia Sala, sul quale il governo non è apparso proprio pronto e a suo agio, ha messo un po’ di sabbia negli ingranaggi dei rapporti tra alleati e in particolare c’è la mossa di Meloni di avocare il dossier sottraendolo al ministro degli Esteri Antonio Tajani con tanto di missione in Usa dal presidente entrante Donald Trump senza che il capo della diplomazia ne fosse informato. Ma, ammesso che la questione della giornalista imprigionata in Iran trovi sperabilmente risoluzione in tempi brevi, il gennaio del centrodestra somiglia molto a una partenza in salita. E’ un discorso di quantità: ci sono decreti ancora da convertire in legge e se ne sono aggiunti 4 approvati nel frattempo dal governo come Milleproroghe, Caivano bis, un nuovo provvedimento sul Pnrr e quello ormai annuale sulle armi all’Ucraina (e su questo come si sa la Lega ha già annunciato riserve e avvertimenti).

Ma è anche un discorso di qualità delle leggi in discussione. Il 20 gennaio per esempio la Consulta deciderà sull’ammissione del referendum abrogativo sull’autonomia differenziata, come noto la riforma “leghista” del pacchetto, scritta dal ministro Roberto Calderoli, già smontata in buona parte dalla Corte e nel mirino di qualche governatore del centrodestra (in particolare Roberto Occhiuto, Calabria). Ma prima, l’8 gennaio, comincia l’iter in Aula, alla Camera, sulla riforma della giustizia. Saranno votazioni propedeutiche, come le pregiudiziali di costituzionalità, ma oltre al merito – su cui il centrodestra di solito è ben unito – da lì e dal successivo esame degli emendamenti potrebbero spuntare segnali di “avvertimento” ai sodali di maggioranza. L’obiettivo di tutti infatti è l’approvazione finale entro luglio e quindi bisogna “fare presto“, almeno nelle intenzioni. Ma chissà che l’iter non incroci le altre mille partite. C’è infatti la riforma “leghista” (l’Autonomia, sia pure ammaccata), c’è la riforma forzista (la giustizia) e poi però c’è quella “patriottista”, cioè il fantomatico premierato, fermo in qualche garage del Parlamento. Anche questa legge, al primo giro parlamentare, ha attirato qualche critica interna (la più autorevole quella dell’ex presidente del Senato Marcello Pera, tra l’altro eletto proprio con Fdi). In più mancano dei pezzi indispensabili, come la legge elettorale e su questo la discussione è di là dal cominciare, anche perché non c’è provvedimento su cui ciascun partito tira più l’acqua al proprio mulino. Finora il governo Meloni ha dimostrato una compattezza rara, nonostante qualche sbandata, ma ora potrebbe trovarsi davanti un’asticella che nel frattempo si è alzata un bel po’.

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