In un vecchio saggio (ma poi mica tanto: è del 2018) di Luciano Canfora, La scopa di don Abbondio (Editori Laterza), il sottotitolo “il moto violento della storia” si adatta perfettamente alla data del 7 gennaio, ricorrenza di uno degli eventi più drammatici delle nostre cronache, quella del massacro di Charlie Hebdo, giusto dieci anni fa, il fatidico 2015, il momento in cui noi tutti percepimmo come certe forze politiche oscurantiste presero il sopravvento in Francia, ma anche in larga parte d’Europa e del mondo, gettandoci in un cupo fatalismo (che in certi Paesi, come l’Italia, si è tradotto nell’assenteismo elettorale).

E’ infatti il giorno in cui commemoriamo l’attentato terrorista di Parigi che decimò la redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo, entrato nel mirino degli islamici per avere pubblicato alcune vignette su Maometto. Fu in quel mercoledì 7 gennaio del 2015 che si aprì una frattura (ma che dico? Un canyon) in seno alla società francese e a quella europea. Fu, purtroppo, un anno feroce che si concluse con la strage del Bataclan, sempre a Parigi, il 13 novembre dello stesso anno, e in altri arrondissement parigini, continuando nel 2016, con quella di Nizza.

Non voglio ripercorrere la sanguinosa cronologia degli attentati che scosse la Francia più di ogni altro paese d’Europa, dove persero la vita in questi dieci anni 294 persone e centinaia di altre rimasero ferite, alcune in modo gravissimo. Sappiamo solo che da allora siamo stati travolti da cambiamento epocali imprevisti, da una continua “emergenza democratica” che dal pericolo del terrorismo islamico si è progressivamente spostata ad una più insidiosa e diffusa malattia, se così possiamo dire sfruttano una celebre definizione leninista (lui si riferiva all’estremismo, malattia infantile del comunismo, io l’applico alle alle conseguenze dl terrorismo islamico che, come ogni terrorismo, è sempre reazionario): quella del progressivo affermarsi delle democrature, ossia delle democrazie illiberali.

Una rivoluzione (bisogna dire proprio così) che sta mutando economie e culture, società e politica, in cui fattori come la rapidità delle decisioni, proposte perché efficaci soluzioni alle crisi, portano ineluttabilmente all’affossamento di ogni attività di intermediazione e di controllo (pensiamo, per esempio, allo svuotamento dei poteri assembleari e parlamentari), approdando alla attuale fase terminale in cui la tecnodestra, quella per intenderci espressa da Elon Musk, provoca il divorzio fra il capitalismo e la liberal democrazia, imponendo un potere tecnologico transnazionale in cui la politica è sottomessa definitivamente alla finanza e all’economia della sorveglianza.

Questo, il lascito del massacro di Charlie Hebdo. Un lascito che allora fu temporaneamente obnubilato dall’indignazione, dall’esecrazione, dalla messa in scena di una solidarietà totale, espressa nell’imponente manifestazione del 13 gennaio 2015, quando sfilammo (già, c’ero anch’io e ne scrissi su il Fatto quotidiano, e la ricordai pure nel primo anniversario, potete rintracciarlo su Google, nda.) per i boulevard di Parigi in due milioni scandendo lo slogan “Je suis Charlie Hebdo!”, siamo tutti potenziali bersagli dell’intolleranza, dei nemici della libertà d’espressione, dell’impertinenza democratica, e quella marcia pareva il trionfo della ragione sulla violenza cieca e furiosa degli estremismi, ogni nostro passo pareva avere una forte carica simbolica, battevamo chi aveva colpito un baluardo, sia pure provocatorio, della libertà di scrivere, pensare, disegnare, giacché le vignette satiriche erano e sono una forma elaborata e preziosa di queste libertà (da noi sancite dalla Costituzione).

In quei momenti, mentre in prima fila i potenti di gran parte del mondo, sfilavano assieme al gran popolo di Francia e a chi l’aveva raggiunto, come me e tanti altri, da ogni parte d’Europa, Charlie Hebdo continuava a rappresentare, pur ferito quasi a morte, il diritto di dire tutto. Fu l’apice della tolleranza sociale più ampia mai avuta.

Oggi i giornali, i siti, le tv, i libri racconteranno cosa successe esattamente dieci anni fa, secondo gli stilemi in uso nelle ricorrenze, nelle commemorazioni, nell’appello universale di non dimenticare. Uno tsunami per dire “le cose dieci anni fa andarono esattamente così”, ma non tutti avranno il coraggio e l’onestà di raccontare la cruenta e sofferta gestazione degli anni successivi al massacro di Charlie Hebdo. Perché è il racconto di una sconfitta.

Non ci fu infatti quella virtù collettiva capace di salvaguardare la società non solo dalla violenza estremistica; tantomeno la società fu in grado di contrastare in modo adeguato gli effetti reazionari che il proditorio attacco del 7 gennaio 2015 aveva innescato, poiché era questo lo scopo di chi aveva colpito un bersaglio tanto significativo quale era la “fortezza della libertà d’espressione” Charlie Hebdo. Passati i primi tempi di entusiasmi democratici, le energie popolari si sono divise, confuse, e diventate incerte. L’impulsivo e forse troppo ingenuo movimento scaturito dalla colossale manifestazione “Je suis Charlie Hebdo” si spense smarrendo l’altissimo valore che era stato attribuito alla capacità di rispondere con la dignità e la volontà di essere liberi a chi voleva invece colpire al cuore democrazia e tolleranza. Sogni ed illusioni.

Il fronte popolare si frantumò, contro le ottimistiche interpretazioni sociologiche e politiche (leggetevi le analisi contemporanee di quel 2015), ed i relativi dibattiti. Marciare per difendere l’eredità morale ed etica di Charlie Hebdo avrebbe dovuto essere un ottimo antidoto per combattere il nemico dei principii fondanti delle democrazie; si è risolto nell’avvento di un conservatorismo sovversivo, che sta logorando con ogni mezzo (anche incostituzionale) le basi stesse degli Stati liberali.

Dieci anni fa, alle 10 e 19 di quel mercoledì 7 gennaio 2015, Chérif Kouachi manda un messaggio a Amedy Coulibaly, dando il via a una “tre giorni di terrore”, tre giorni di “polvere e sangue”, come lo rievoca Le Monde, “che hanno cambiato il volto della Francia”. Quei due nomi, sino a quel momento conosciuti solo dalla polizia, usciranno ben presto dall’anonimato.

Poco dopo, alle 11 e 30, due uomini con il volto coperto da un cappuccio nero e vestiti di nero, armati di fucili d’assalto, parcheggiano la loro Citroen C3 davanti al numero 6 dell’allée Verte, nell’11esimo arrondissement di Parigi. Sono i fratelli Saïd e Chérif Kouachi, hanno rispettivamente 34 e 32 anni. Entrano nei locali di una società. Chérif spara sul pavimento dell’androne chiedendo dove sono i locali di Charlie Hebdo. I due salgono di un piano e sempre Chérif spara ancora, stavolta sul soffitto. Uno dei due commenta: “Direte che siamo venuti da parte di Al-Qaeda dello Yemen”.

I due escono e penetrano nel palazzo accanto, al 6-10 della rue Nicolas-Appert. Al terzo piano, entrano nei locali di una società di produzione, dove intimano ai presenti di restarsene seduti. Un nuovo colpo è sparato verso una porta chiusa. Qualche istante dopo, fanno irruzione nell’ingresso del 10, sempre in rue Nicolas-Appert. Ci sono tre uomini addetti alla manutenzione: “Dov’è Charlie!”, gridano, un quarto sparo e Frédéric Boisseau, 42 anni, responsabile della squadra, è ferito a morte.

Sulle scale i due s’imbattono in Corinne Rey, più nota come Coco, una delle disegnatrici di Charlie, che stava lasciando la redazione per andare a prendere la figlia all’asilo. “Portaci da Charb!”, le ordinano gli Houachi. Charb, cioè Stéphane Charbonier, disegnatore e direttore del settimanale satirico. Le puntano un Kalashnikov alla gola, la costringono a comporre il codice per entrare nei locali della redazione. Lei dapprima sbaglia piano, poi torna sui suoi passi. I due la spingono in avanti, entrano nei locali della redazione.

Sparano subito contro Simon Fieschi, il webmaster di Charlie, che si trova nella stanza d’ingresso. Un proiettile lo ferisce gravemente al collo, la pallottola tocca la scapola sinistra, devia verso la spina dorsale. Simon sopravviverà, ma soffrirà di dolori insopportabili: perderà sette centimetri, dopo numerose operazioni, al processo che si è aperto lo scorso 16 settembre contro colui che è considerato il “mandante” dell’attentato, Peter Cherif (amico d’infanzia di Chérif Kouachi, arrestato a Gibuti il 16 dicembre 2018), testimonierà con indomito sarcasmo: “Ho perso buona parte dell’uso delle mani e mi dispiace di non poter più dare il dito medio”. Per anni è andato in giro nelle scuole e nei teatri, in tv e alle radio, a ricordare ciò che successe, “ho lavorato a tempo pieno per essere vittima di un attentato”, quasi fosse un mestiere, per chi ha militato in un giornale “satirico, laico, politico e gioioso”.

Mi soffermo su Simon, che al processo ha tracciato un parallelo tra lui e l’imputato: “Entrambi abbiamo guardato le stesse trasmissioni tv, eravamo coetanei, abbiamo avuto i primi amori nel parco di Buttes-Chaumont (che poi risultò essere il centro di un rete jihadista). Poi, io sono entrato a Charlie Hebdo. Lui ad al-Qaeda. Lui ed io ci siamo occupati delle mail dei nostri lettori”. Simon di quelle che arrivano a Charlie. Peter era incaricato dall’organizzazione terroristica di filtrare le mail che gli aspiranti jihadisti inviavano alla rivista on-line di propaganda. “Io e lui abbiamo perso dei colleghi, conosciamo l’odore del sangue e della polvere che vi si mescola”. La conclusione della testimonianza di Simon è, in apparenza, sconcertante: “E’ un fratello umano, certo un nemico, ma resta un fratello”. Pochi giorni dopo questa testimonianza, Simon viene trovato senza vita nella stanza di un albergo di Parigi, il 17 ottobre del 2024. Per pudore, si evita di dire che si è ucciso. E’, comunque, l’ultima vittima di quel 7 gennaio 2015.

Dunque, dopo aver spiato a Fieschi, i fratelli Kouachi irrompono nella sala delle riunioni di redazione. Sparano svuotando i caricatori. Uccidono Frank Brinsolaro, il poliziotto incaricato della protezione di Charb, che ha avuto il tempo di sollevare la pistola ma non quello di rispondere al fuoco. Poi è la volta di Charb, falciato senza pietà. Come la psichiatra Elsa Cayat, i disegnatori Georges Wolinski, Philippe Honoré, Jean Cabut conosciuto come Cabu, Bernard Verlhac in arte Tignous, l’economista Bernard Maris, e Michel Renaud, un militante di Charlie che aveva deciso di assistere alla riunione di redazione.

Due giornalisti e un disegnatore sono colpiti, sia pure gravemente, ma sopravviveranno: Philippe Lançon, Fabbriche Nicolino e Laurent Sourisseau, che disegna col nome di Riss. Il correttore Mustafà Ourrad, di origini kabile, è ammazzato in un’altra stanza: un colpo alla tempia sparato da Chérif Houachi: “Mio padre avrebbe ottenuto finalmente a febbraio, dopo decenni di presenza in Francia, la nazionalità francese”, ha ricordato la figlia Louise al processo contro Peter Cherif. Mustafà aveva 60 anni, era nato ad Ait Larbaa, in Kabilia, nel 1954. Orfano fin da piccolo, era stato cresciuto da uno zio, poi accolto da una comunità dei Pères Blancs che avevano creato una scuola nel villaggio. Mustafà diventa responsabile della biblioteca, scopre la lingua francese e la letteratura in generale. Un colpo di fulmine: Rimbaud, Nietzsche, Dostovjevski, l’egiziano Albert Cossery (il favorito), “Mendiants et orgueilleux”, il suo libro preferito che teneva sul comodino accanto al letto. Scopre Baudelaire, ne impara a memoria i poemi, li recita. Da allora, lo soprannominano Mustafà Baudelaire.

Da Algeri a Parigi, al Quartiere Latino, il luogo dei suoi sogni. Succede nel 1980. Ma gli inizi sono difficili. Pena ad ottenere la carta di soggiorno. Bazzica i café letterari, legge poesie, ne compone, si iscrive alla Sorbona, alterna lavoretti a corsi universitari: scienze umane, etnologia…sino al 1992 quando capisce che il suo mestiere è quello del correttore. Formidabile in grammatica ed ortografia, lo ricorda Riss nel suo libro Un minuto e 49 secondi (Actes Sud). Debutta presso la casa editrice Hachette, dopo passa a Viva e a Charlie Hebdo, dove andava di solito ogni lunedì, il giorno di chiusura del settimanale: “Era stato un gran lettore di Hara-kiri (famosa pubblicazione satirica degli anni Settanta e Ottanta, chiusa dalle autorità, nda), conosceva i lavori di Cabu e Cavanna, amava molto questi ambienti ed era felice di lavorare con Charlie”, ha detto Louise, la figlia maggiore, “non ho mai conosciuto un correttore capace di tanta flessibilità e delicatezza nel suo approccio alla lingua. Era un difensore della lingua francese”, ha dichiarato l’avvocato Richard Malka, difensore di Charlie.

Giustiziato Mustafà, la cronista giudiziaria Sigolène Vinson, braccata da Chérif, si sente dire che lui non uccide le donne e ma che deve leggere il Corano. Sigolène, tremante, annuisce. Sono passati 109 secondi. I due fratelli terroristi hanno sparato quaranta proiettili, colpo per colpo. Chi è sopravvissuto ha sentito più volte gridare “Allah akbar!”. E ha aggiunto che i terroristi erano tanto calmi quanto determinati.

I due se ne vanno via, tra i rantoli dei feriti e dei moribondi. Escono dal palazzo. Brandiscono i mitra. Urlano (così riferiranno i testimoni): “Abbiamo ucciso Charlie Hebdo! Abbiamo vendicato il profeta Maometto!”. Sta arrivando una volante della polizia criminale, nel frattempo, e un poliziotto in bici. C’è una sparatoria. Ma i poliziotti non sono in grado di rispondere al volume di fuoco dei mitra. Si ritirano. I terroristi salgono sulla loro vettura. La fuga è contrastata, senza successo.

Non vado oltre questa ricostruzione. E’ la fotografia del massacro di Charlie Hebdo. Quanto ai terroristi, avranno solo ancora due giorni, prima di essere circondati ed eliminati. Succede alle 16 e 56 di venerdì 9 gennaio 2015. I fratelli Kouachi si erano rifugiati in mattinata dentro una piccola azienda grafica della zona artigianale di Dammartin-en-Goële (Seine et Marne). Hanno il tempo di contattare i siti d’informazione della Cnn, di i-Télé e Bfm-Tv. Un giornalista di quest’ultima emittente riesce a parlare con Chérif che spiega come lui e suo fratello sono stati inviati e finanziati da Anwar Al-Awlaqi, capo di al-Qaeda nella penisola arabica (AQPA), prima che costui non fosse stato liquidato da un radi della Cia, il 30 settembre del 2011: “Abbiamo difeso il Profeta. Non siamo assassini, come invece lo sono coloro che ammazzano i bimbi musulmani in Iraq, Siria ed Afghanistan”.

Le grandi mobilitazioni del 10 e dell’11 gennaio 2015 suscitano sentimenti formidabili. Régis Debray, addirittura, paragonò questo evento alla festa del 14 luglio 1780 sul Campo di Marte, quando ci fu una cerimonia in cui il popolo francese si ritrovò attorno al suo re. Se allora ci fu una effimera resurrezione dello spirito unitario con quello della monarchia, nella marcia “Je suis Charlie” c’era una sorta di risveglio di una consacrazione repubblicana, una “comunione laica”.

Ma già si rilevavano gli angoli ciechi di questa mobilitazione a 360 gradi, le ambiguità, le contraddizioni. Debray ci vide “i criminali di guerra venuti a Parigi a condannare un atto di guerra (…) dei petromonarchi che infliggono mille colpi di frusta ad un blasfemo e che vengono a perorare la tolleranza…”. Ex aguzzini acclamati “dai nipoti del Mai 68, autorità religiose che sfilano difendendo il settimanale libertario promosso a giornale ufficiale”. Insomma, in quel momento guai a non essere “je suis Charlie”, altrimenti venivi rigettato nel limbo della regressione religiosa contro-repubblicana, se non in quello del totalitarismo islamico. Luci della ragione contro le tenebre dell’ignoranza, ecco cos’era quella marcia figlia del 7 gennaio 2015. Ma già qualche mese dopo c’era chi, come Marcel Gauchet sul giornale l’Opinione (16 aprile 2015), scriveva che il “trauma Charlie era svanito”.

Certo, i dibattiti sulla natura del radicalismo islamico e il conseguente terrorismo si erano moltiplicati, però, nel medesimo tempo, si erano cominciati a sviluppare sistemi di controllo e di coercizione sempre più severi, e di ciò se ne tenne conto nelle discussioni sull’applicazione dei principii di laicità e di libertà, come sul ruolo e il posto dell’islam nella società. In Francia, più che altrove, si traduceva in laceranti contraddizioni quel che la legge del 1905 (la separazione della Chiesa dallo Stato, nda) era riuscita a fare per contenere il cattolicesimo politico nel quadro della Repubblica: non sembrava più all’altezza di fronteggiare questa nuova minaccia religiosa politica integralista.

Il risultato è stato che negli anni post-Charlie, la pretesa laicità della “primavera repubblicana” di “Je suis Charlie” è stata strumentalizzata in una sorta di marciapiede politico per l’estrema destra sino ad espandere il lato identitario nel discorso politico allargato dall’estrema destra alla destra e ai conservatori.

Oggi, se chiedete ai sopravvissuti di Charlie se la libertà d’espressione è ancora tutelata, come negli auspici di quella marcia, ti risponderanno che è dettata dai limiti di legge. Già, la legge, non soltanto in Francia, pone limiti sempre più severi e numerosi alla libertà d’espressione (pensiamo alla spada di Damocle delle querele, qui in Italia…). Dal 2015 ad oggi, per esempio, le associazioni religiose (ma non solo) si sono più o meno organizzate per censurare la libertà, in particolare quella di espressione che lo Stato tutela e/o dovrebbe tutelare.

Disegnare vignette satiriche è diventato sempre più rischioso. Nel 2019, per esempio, persino il New York Times le ha eliminate dall’edizione internazionale dopo averle tolte dalle edizioni nazionali. Ed è polemica dei nostri giorni quella sulle caricature di Maometto realizzate da Charlie Hebdo che il comitato direttivo di Cartoon nell’ambito del progetto “Maison du dessin de Presse”, annunciato a suo tempo dal presidente Macron, su una vecchia idea del povero disegnatore Wolinski, uno delle vittime di Charlie, vorrebbe esporre al pubblico. Ci sono parecchie resistenze. Sarebbe paradossale, per non dire incomprensibile, se i disegni per i quali furono assassinati i caricaturisti di Charlie, non fossero esposti: la Maison, il museo parigino che aprirà i battenti nel 2027, non solo deve costituire un omaggio alla loro memoria, ma inserirli in un contesto culturale (e politico) tale da rivelare l’assurdità, la ferocia, l’odio e l’intolleranza di quanto accaduto nel 2015.

Ci sarà il coraggio di far capire che, alla fin fine, il gioco del terrorismo ha favorito l’attuale deriva illiberale che sta sconvolgendo l’Occidente?

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