“No, utilizzare una cornice catastrofica nel racconto del cambiamento climatico, come spiega bene la letteratura, non aiuta l’impegno a lungo termine delle persone. E tuttavia è sacrosanto che al cittadino arrivi l’idea della complessità di ciò che accade, perché solo in questo modo ci si rende conto di ciò che stiamo fronteggiando”. Sara Moraca, ricercatrice, docente, giornalista, è un’esperta, tra l’altro, di comunicazione del cambiamento climatico. Tema al centro del libro, da lei curato, La comunicazione ambientale. Teoria, strumenti e pratiche. Dalla scienza al giornalismo all’attivismo (Franco Angeli).

Partiamo dalla comunicazione del cambiamento climatico portata davanti dai movimenti, da Fridays for Future a Extinction Rebellion. Lei ritiene efficace una comunicazione basata soprattutto su una visione catastrofica del futuro?

La letteratura scientifica ci dice che la narrazione emotiva ha sicuramente una connotazione importante: la narrazione, lo storytelling è fondamentale per arrivare alle persone, per far sì che il tema climatico risulti importante e pertinente e arrivi alla vita quotidiana delle persone. Da questo punto di vista l’emotività è importante e positiva e va impiegata nel racconto. Utilizzare però una cornice catastrofica non funziona per creare un engagement a lungo termine: questo ha solide evidenze sempre nella letteratura, che ci dice che la paura crea un engagement e breve termine, innalza l’attenzione ma non serve, appunto, per l’impegno a lungo termine necessario per l’azione climatica, poiché noi agiamo oggi per osservare risultati in dieci, venti o trent’anni. È vero comunque che i movimenti sanno creare anche storie positive, anche perché lavorano sempre più con gli scienziati, creando nuovi linguaggi e narrazioni.

Veniamo al giornalismo ambientale, tema al centro del libro e affrontato da lei insieme alla giornalista Silvia Lazzaris. Voi scrivete che sul cambiamento climatico c’è ancora oggi un’attenzione limitata. Perché questo è sbagliato e quali sono gli altri errori dei media italiani sul clima?

Partiamo del fatto che di clima non si parla abbastanza. Abbiamo picchi di copertura mediatica sulle COP, cioè parliamo di clima quando i grandi della Terra si riuniscono, ma ci scordiamo che il clima riguarda tutto: economia, salute, finanza, lavoro, diritti femminili. I linguaggi e la ricchezza di ricerca che abbiamo a disposizione e il fatto che il clima permei tutte le forme di realtà che conosciamo permette un giornalismo molto più variegato e ricco.

Cosa pensa invece degli inviti ai negazionisti, messi sullo stesso piano degli scienziati?

Questo fenomeno in letteratura si chiama “Balance and Bias” e descrive la tendenza ad avere in studio lo scienziato che sostiene l’esistenza del cambiamento climatico e la sua radice antropogenica e lo scienziato o il politico negazionista. Questo crea, appunto, dei “bias”, perché chi si occupa di clima conosce le cause del cambiamento climatico, ma il cittadino che non ha expertise scientifica vedendo un attore da una parte o dall’altra si fa un’idea sbagliata Noi giornalisti abbiamo la delicata responsabilità etica e morale di fungere da mediatori tra la scienza e il cittadino. Un altro tema critico è la questione della scarsa interdisciplinarietà.

Può spiegarci di che si tratta?

Sfide come il cambiamento climatico, la salute, anche il covid, ci hanno messo di fronte al fatto che la conoscenza non è a compartimenti stagni e serve più collaborazione accademica. Il dialogo sul clima deve essere interdisciplinare. Non è facile spiegare la complessità, non possiamo banalizzarla. Per questo una delle speranze dal punto di vista comunicativo è, ad esempio, parlare del rapporto tra salute e clima. Anche se non abbiamo ancora la misura dell’impatto questa è una strada percorribile, risveglia l’attenzione delle persone e può produrre un cambiamento nel comportamento. La letteratura parla di co-benefit, ovvero di azioni che permettono di avere conseguenze positive sia sul clima che sulla salute.

Cosa caratterizza una comunicazione climatica corretta?

Sicuramente dobbiamo imparare a trasmettere l’incertezza, che fa parte del metodo scientifico. Abbiamo sempre più strumenti e sempre più dati sul clima, ma anche all’interno di questi modelli c’è comunque un range di incertezza. L’altro aspetto è – come ho già sottolineato – evitare cornici catastrofiche, perché queste inculcano nel cittadino l’idea che non possa fare niente rispetto al “mostro” che ha davanti. Un’altra parte della letteratura mette in luce l’importanza di sottolineare l’aspetto economico, ovvero come la transizione energetica può essere un’enorme opportunità economica e occupazionale.

Infine: quali sono, a suo avviso, le forme del giornalismo ambientale più efficaci: podcast, video, newsletter, social media?

Utilizzare tutto quello che abbiamo a disposizione permette di adeguare la narrazione più complessa a misura del lettore. Ognuno di noi ha una sensibilità maggiore rispetto a un certo linguaggio, visivo, audio, scritto. La complessità di un tema come il cambiamento climatico merita avere a disposizione tutti i mezzi e i linguaggi possibili, perché si possa arrivare a tutti i pubblici che usano quei canali, senza perderne nessuno.

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