Rue Nicolas Appert è una piccola viuzza con gli edifici bassi e bianchi. Due di questi edifici sono praticamente gemelli: il civico 6 e il 10. Quel 7 gennaio del 2015, è un mercoledì, arrivano in rue Appert due tizi, trent’anni a testa, franco-algerini: sono i fratelli Saïd e Chérif Kouachi. Stanno cercando la redazione di un settimanale satirico che si chiama Charlie Hebdo, ma non per chiedere autografi. Hanno delle armi e a questo punto avrete capito perché vi ho portato a Parigi“.

Queste sono quasi le prime parole che ho scritto di un libro pubblicato nel 2021 (I peggio stronzi, Piemme). Racconto, tra le tante cose, (le conseguenze del)l’attentato a Charlie Hebdo, un evento che ha segnato in modo irreversibile chiunque faccia il mio lavoro e del quale oggi cade il decennale dalla strage.

Dieci anni. Roba da matti.

Sono stato molte volte a Parigi, in questi dieci anni. Ho incontrato i superstiti, ho parlato con loro e raccontato ancora le loro storie. Io, che ho sempre amato quel fogliaccio fin da ragazzo, oggi quando lo riprendo in mano – dieci anni dopo – stento a riconoscerci per quanto siamo cambiati. Parlarne oggi, quando mi chiedono di farlo, è una conversazione su una zattera tra sopravvissuti a un naufragio. La domanda non è “cos’è cambiato?”, per me, ma “cos’è rimasto?”. E a questa domanda provo a rispondere in edicola, oggi martedì 7 gennaio, con Il Fatto Quotidiano con tavola di diario a fumetti da Parigi, dov’ero fino all’altro giorno, intitolata “Que reste-t-il?” come la canzone di Trenet. Non perdetevela, ci sono anche delle vignette dei miei colleghi e un ricordo di Antonio Padellaro sul giorno in cui Il Fatto decise di allegare Charlie.

Che vita spettacolare, questi giornali.
E che satira.

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Quel ‘Je suis Charlie’ subito dimenticato. Parlarne dieci anni dopo racconta una sconfitta

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