A sole 24 ore dal suo rientro in Italia, Cecilia Sala torna a registrare il podcast “Stories” prodotto da Chora Media. Durante una lunga intervista con Mario Calabresi, arrivato questa mattina a casa della giornalista con un mazzo di fiori, la giornalista ha risposto alle domande, iniziando da un quesito apparentemente semplice: “Come stai?”. La giornalista ha risposto di stare bene ma di sentirsi ancora confusa e da qui ha iniziato a raccontare i suoi 20 giorni di prigionia. “Sono riuscita a ridere due volte: la prima quando ho visto il cielo, anche se c’erano telecamere e filo spinato” ha raccontato. “E poi – ha aggiunto ripercorrendo i giorni ò quando c’era un uccellino che faceva un verso buffo. Il silenzio è un nemico in quel contesto. Ho riso. Poi un’altra volta” per una “incomprensione con una guardia donna,” continua. “Il silenzio è il nemico in quel contesto e in quelle due occasioni ho riso e mi sono sentita bene. Mi sono concentrata su quell’attimo di gioia, ho pianto di gioia” sottolinea.

Non mi è stato spiegato perché sono finita in una cella di isolamento nel carcere di Evin. Questa storia comincia col fatto che l’Iran è il Paese nel quale più volevo tornare, dove ci sono le persone a cui più mi sono affezionata – prosegue il racconto -. Si cerca di avere uno scudo dalla sofferenza degli altri che accumuli e qualche volta delle fonti che incontri per lavoro diventano amici, persone che vuoi sapere come stanno e l’Iran è uno di questi posti”. Nel corso dell’intervista, Sala ha spiegato ancora: “Si cerca di avere uno scudo perché si incontrano persone che soffrono, uno scudo da sofferenza degli altri e qualche volte le persone che intervisti che incontri bucano lo scudo e hai bisogno di sapere come stanno. Ci tenevo a tornare da loro. Questo viaggio inizia per incontrarli e per dare loro voce”.

L’arresto – Ricordando il giorno dell’arresto, Sala racconta: “Stavo lavorando, hanno bussato alla porta, pensavo che fossero i signori delle pulizie e ho detto che non avevo bisogno di nulla, ma sono stati insistenti e ho aperto. Mi hanno portata via” Il suo racconto si concentra poi sul momento in cui ha realizzato che la detenzione non sarebbe stata breve: “Speravo che potesse essere una cosa rapida, ho capito dalle prime domande che non sarebbe stato breve – dice – Ho capito che ero a Evin, conosco quel carcere non perché ci fossi già stata, ma conosco quanto è grande, dove è e ho capito dal percorso che ho fatto in auto che ero dentro la città e che era un carcere grande”.

La prigionia – Nel carcere di Evin Sala ha temuto di dover rimanere a lungo: “Conosco le storie dei tanti che sono ancora lì. Penso a loro”. La giornalista ricorda che alla richiesta delle accuse non riceveva delle risposte chiare: “Per le prime due settimane tutti i giorni mi interrogavano. Ho preso in considerazione di essere accusata del reato che chiamano ‘pubblicità contro la Repubblica islamica’ o di cose molto più gravi. Quando ho chiesto, mi hanno detto solo: ‘Tante cose illecite in tanti luoghi diversi”. Quella vaghezza l’ha portata a pensare che il suo arresto potesse essere legata al fermo di Mohammad Abedini, l’ingegnere iraniano fermato il 16 dicembre all’aeroporto di Malpensa, di cui era venuta a conoscenza qualche giorno prima del suo arresto. “Ho pensato che potesse esserci l’intenzione di usarmi. E pensavo sarebbe stato uno scambio molto difficile. Se non fosse stato arrestato forse sarei tornata a casa”.

Quei giorni per Cecilia Sala sono stati tra i più difficili, ricorda con commozione. “Pensare a Zeinab Musavi, la più famosa stand up comedian che avevo incontrato il giorno prima dell’arresto mi è stato di grande aiuto. Anche lei era finita in una prigione di isolamento, ma anche là era riuscita a ridere. Un pensiero che mi aveva aiutato a superare i primi giorni”. Calabresi chiede alla giornalista: “Quale è stata la cosa più difficile?”. E lei risponde: “Per non impazzire mi sono ritrovata a passare il tempo a contare le ore, a contarmi le dita, a leggere gli ingredienti del pane che erano l’unica cosa scritta in inglese. Ho fatto ipotesi sul mio destino, ma non avrei mai pensato di venire liberata in 21 giorni. La cosa che più volevo era un libro, la storia di qualcun altro, una che non fosse la mia in cui immergermi. Ho chiesto il Corano in inglese perché pensavo potessero averlo, ma non mi è stato dato per molti giorni. Come non mi sono stati dati degli occhiali da vista o una penna per scrivere, tutti oggetti che per le guardie potevano essere armi. Dormivo a terra, senza cuscini né materassi. Mangiavo tanto riso con lenticchie e carne. Il problema non è stato mangiare, ma dormire.”

La scarcerazione – La giornalista racconta come la scarcerazione le sia stata comunicata alla mattina, verso le 9 e di come non riuscisse a crederci. “Pensavo fosse un trucco. Poi, mentre gioivo, ho pensato a come dirlo alla mia compagna di cella, Farzaneh, che da due giorni dormiva con me, al fatto che lei sarebbe rimasta lì da sola, ho un po’ di senso di colpa dei fortunati. Forse non sono stata fortunata, forse siete stati molto bravi voi, tutti, i miei genitori, Daniele, i colleghi, il governo e i servizi di sicurezza. A tutti sono molto grata”. Da ultimo il ricordo dei primi momenti di libertà in macchina: un mix di emozioni dovuti sia alla gioia della libertà che al senso di nostalgia: “Guardi l’Iran, un posto che ami così tanto, che ti interessa così tanto perché ora sei libera, ma pensi che forse è l’ultima volta che lo vedrai”.

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