Vivo in uno di quei posti del Sud dove il Natale lo fanno le persone. E non è buonismo da pandoro, è che davvero quaggiù più che dalle lucine intermittenti le Feste le riconosci per la quantità di ragazzi in giro. Il problema, il dramma, è che sono intermittenti pure loro. Studenti e lavoratori tornati in città di cui non ricordano più i nomi delle vie. Ritrovano i parenti, gli amici rimasti e gli altri tornati, riscoprono potenzialità e mormorano rimpianti. Una boccata d’aria buona e d’affetti, tanti “Che peccato! Quante cose si potrebbero fare qui”, poi in un niente già in coda all’aeroporto, per la diaspora verso l’altra loro vita.
In un Paese che dibatte di Autonomia differenziata, a me sembra palese come esista già da decenni, aizzata dalle Università. Sarò brutale: se “buon investimento” vuol dire spendere oggi per guadagnare domani, quello che metà Italia pratica, sborsando per crescere ragazzi che diventeranno produttivi nell’altra metà del Paese, è un investimento terribile. Famiglie di mezza Italia svenate per affitti esorbitanti, voli vergognosi, libri e tasse universitarie al rialzo, svaghi. C’è un Sud che ogni anno perde talenti, energie, denaro e futuro e c’è un Nord, italiano o estero che sia, che incanala risorse umane e fiumi di soldi.
E poi ci sono le classifiche, che certificano e alimentano questo sistema. Al Nord le migliori Università, che sarà anche vero ma è un loop animato da iscritti paganti e promettenti. Al Nord la qualità della vita, come se a rendere un luogo attrattivo fossero solo i kilometri di piste ciclabili (ma qui vivo in collina e vado a piedi), le ztl (ma qui non ho problemi di traffico) o il numero di alberi lungo le strade (ma qui sono circondato da mare e campagna). Del costo dell’affitto di un micro-monolocale, delle ore di vita perdute in interminabili spostamenti casa-lavoro, del numero di giornate senza ombra di sole le graduatorie non tengono conto. C’è di più al Nord, senza dubbio, ma così ci sarà sempre di più. A rimetterci non è tanto e solo il Sud, spremuto di linfa vitale, ma i ragazzi. Centinaia di migliaia ogni anno.
Quella che sta crescendo, che è anzi già cresciuta in un Paese dove fino ai 35 anni sei ancora un ragazzino, non è né Millennial e né Z: è la Generazione Disarcionata. La prima generazione nella storia che tra magistrale, specialistica, tirocinio e precariato posticipa in massa l’inarrestabile orologio biologico. Ragazzi stempiati e ragazze coi primi capelli bianchi che aspettano ancora il proprio turno in società per permettersi di mettere su famiglia, inconsapevoli di privare anno dopo anno i propri (eventuali) figli del diritto a crescere con dei nonni. Una generazione che ha due cuori, uno giù e uno su, ma che fatica a costruire relazioni. Torna al Sud e trova i vecchi amici con figli e interessi mai sentiti; va al Nord e s’innamora, ma dove mettere radici se lei è siciliana, lui pugliese e convivono a Milano a tempo determinato? Una generazione cresciuta nell’effimera convinzione di una meritocrazia scolastica, fatta di lodi per chi studia, che poi sbatte contro l’inflazione delle lauree. Conta il voto? Conta il tempo impiegato? No, contano più i soldi, per iscriversi all’Università privata o per mantenersi fin quando serve, che tanto a una pergamena prima o poi ci arrivano tutti, meritevoli e non. Una generazione coi sensi di colpa per i genitori acciaccati dall’età e dalla solitudine, che forse un giorno chiederanno bruscamente ai figli di tornare, per bisogno. Una generazione inchiodata dalla responsabilità della grande domanda: ma se da qui andiamo via tutti, che si fa?
In questo vecchio Paese l’emigrazione giovanile è polvere sotto al tappeto. Se ne parla una settimana prima delle elezioni, per il voto fuorisede; una prima del Natale, per il caro voli. Se ne parla, senza trovare soluzioni, e poi non se ne parla più. Se la politica neanche si pone il problema, tocca ai ragazzi scendere da un filo, andare o tornare, che diventa palude. A loro, io che a lungo sono andato e poi tornato, do due consigli. Il primo è: andatevene. Non per sempre, ma se potete permettervelo, svignatevela. E non perché ci siano per forza Università migliori da qualche altra parte, ma perché vivere da soli, cimentarsi con altre città e con il bucato, con i coinquilini e con la metropolitana, vi trasforma da figlio a individuo. Vale per i ragazzi del Sud e per quelli del Nord: un conto è laurearsi continuando a vivere in famiglia, frequentando la comitiva di sempre, un altro è sfidandosi. Scollatevi dalle comodità familiari: ci si riscopre.
Il secondo è: scegliete. Non adesso, ma – di nuovo – se potete permettervelo, decidete voi dove realizzare la vostra vita. Verrà un momento, dopo la laurea o durante il lavoro, in cui vi porrete il dubbio su quale città fare vostra: non lasciate che sia l’inerzia, la concatenazione degli eventi a tirarvi di qua o di là. Non c’è differenza tra chi resta al Sud per paura di andare e chi resta al Nord per paura di tornare: la paura è un rimpianto, non un motivo. E non abbiate timore nemmeno del peso di questa scelta perché nessuno, se non voi, dice sia definitiva: fatta quella, potrete sempre farne un’altra. La vostra strada la sentirete. In bocca al lupo.