Cinema

Emilia Perez, Musical? Melò? Un film pretestuosamente diverso, privo di brio e curiosità

Come un film del genere ambisca ad un Oscar è proprio il segno di un tempo creativo cinematografico auto celebrativo che rimastica su se stesso evacuando topolini

di Davide Turrini
Emilia Perez, Musical? Melò? Un film pretestuosamente diverso, privo di brio e curiosità

Che pasticcio Emilia Perez. Musical? Melò? Dramma sociale? Verismo sulla transizione di sesso? Tutte queste cose insieme assemblate male. Pretestuosamente diverso, apparentemente intrigante, totalmente privo di brio e curiosità verso temi e linee espressive trattate, l’osannato film diretto dal francese Jacques Audiard, girato alle porte di Parigi come fosse in Messico (vi risparmiamo le immense polemiche del mondo centroamericano sulla mancanza di aderenza linguistica degli attori che sono tutti fuorché messicani), è di quelle torte multistrato che si vedono nei programmi tv di cucina ma che una volta addentate non sanno di nulla.

Partiamo dal fatto che Emilia Perez propone subito, come un ceffone sul grugno, un paio di intrusivi numeri da musical urbano (autori: Clement Ducol e Camille) dalle linee coreografiche minimali e spigolose, anche se sono saltelli estemporanei più da pausa caffè che elementi lontanamente significanti. Emilia Perez dopo otto minuti ha già fatto intuire in maniera prescrittiva che ogni tanto le battute diventeranno accenni di versi e ritornelli di brani musicali (ce n’è uno strambo in cui si canta “vaginoplaaaasticaaaa”) che poi nel lungo disomogeneo svolgimento diventeranno altezzoso e pernicioso vezzo creativo.

Un po’ come se Selma/Bjork dopo Dancer in the dark dovesse sognare a occhi aperti oltre il duro e grigio subalterno lavoro anche a Città del Messico dividendosi tra Rita Castro (Zoe Saldana), l’avvocatessa sfigata e corruttibile tormentata dall’etica, e Manitas Del Monte/Emilia Perez (Karla Sofia Gascon), lo spietato boss del narcotraffico da due anni segretamente sotto cura ormonale che compra Rita inondandola di denaro affinché trovi una clinica nel mondo che gli possa far cambiare sesso (da uomo a donna, sia chirurgia inferiore che superiore). Esposte così le coordinate sul canticchiare un tanto al chilo ecco che vengono innestate disordinatamente la colorazione melò e la bruschezza del dramma sociale. Perché Manitas diventato Emilia si fa sia “zia” dei suoi due adorati figlioli e confidente della ex moglie (Selena Gomez, interpretazione monocorde sconcertante) che promotore su ogni canale d’informazione di una ong di successo dedita alla ricerca dei desaparecidos dovuti alle guerre tra bande criminali. Ed è qui che la già franosa e pallida scrittura del film (ci si sono messi in quattro: Audiard, Thomas Biegain, Lea Mysius, Nicolas Livecchi) letteralmente si squaglia su tonalità indecifrabili.

Ogni personaggio comincia a vivacchiare anonimamente dentro una storia che perde ogni minuto mordente, come se ad ogni giuntura di montaggio Emilia Perez si sgonfiasse gradualmente come un palloncino. La giunonica Emilia, attratta sessualmente e ricambiata da Epifania (Adriana Paz, vera star messicana e si intuisce), mamma di un ragazzo scomparso, si ingelosisce come una belva per il nuovo fidanzato della ex moglie. Mentre le gesta fino a quel momento imprescindibili dell’avvocatessa Rita scompaiono parcheggiate in un secco rivolo fino a farla riemergere in un finale action gangster che nella sua grossolanità invita al riso più che al dramma.

Per Audiard, del resto, il codice del melò è un coltellino nascosto in una borsetta, quella di Epifania, mentre dall’altra parte sbuca una pistolona d’argento che allude a questioni metaforiche che preferiamo non conoscere più a fondo. Emilia Perez manca di grazia e di misura, di urgenza cinematografica e di sincerità d’animo. Anche se quando produci in un certo ambiente artistico la confezione impeccabile ti eleva sempre sullo scaffale dell’impegno d’essai. Teniamo in chiusura l’altro segno “originale” del film: la transizione uomo donna. E la teniamo in conclusione perché emblematica proprio di questa idea di pasticcio mal dosato che regge l’intera operazione. Nonostante la prova generosa della Gascon lo sguardo di Audiard spazia da una ilare spregiudicatezza ad una melensa isteria, da una sgangherata sovrapposizione dell’osservazione impaurita di Rita su Emilia ad una sterile vertigine della macchina da presa su un soggetto così ambiguo che finisce per essere impalpabile. Come un film del genere ambisca ad un Oscar è proprio il segno di un tempo creativo cinematografico auto celebrativo che rimastica su se stesso evacuando topolini.

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