Con le vacanze la salute mentale di chi è solo può soffrire. Ma si può trovare sollievo dal disagio

Per chi torna al lavoro può sembrare incredibile che con la fine delle vacanze chi soffre di disturbi mentali è probabilmente scampato a un periodo difficile. Alcuni pensano che la relazione tra vacanze e disagio mentale sia una leggenda metropolitana, ma un articolo scientifico (The Christmas Effect on Psychopathology) che ha preso in considerazione studi sul tema prodotti dal 1980 a oggi conferma che c’è un’evidenza empirica che riguarda soprattutto i casi di depressione, l’uso di sostanze, l’autolesionismo e i tentativi suicidiari.
Un ambiente sociale che interrompe le proprie attività, con le famiglie che fuggono dalla città o si rintanano nelle abitazioni, crea una sorta di sospensione spazio-temporale della comunità che porta chi è solo alla ruminazione dei pensieri. Saltano gli orari e le abitudini che tengono in equilibrio la personalità, saltano le relazioni quotidiane, chiudono i luoghi di socializzazione.
La sofferenza mentale è un continuo indagare ossessivo sulle proprie colpe presunte, un intimo tribunale che giudica i fallimenti, che condanna a un senso di perenne inadeguatezza. Chi soffre prevede un futuro senza prospettive accompagnato da un profondo dolore. Stare da soli in isolamento è una condizione innaturale che porta la mente a reagire in modi inaspettati. Lo sanno anche i navigatori solitari, che spesso raccontano che durante le loro traversate iniziano a sentire le voci e soffrono di allucinazioni. Lo sanno i tanti, di qualsiasi età, che nel confinamento casalingo durante la pandemia hanno iniziato a manifestare sintomi psichiatrici.
Mi è capitato di leggere un articolo di una scrittrice che sostiene che le malattie mentali sono di origine genetica e che non c’è cura. In realtà delle malattie mentali e in particolare delle loro origini si sa assai poco, e seppure possa esserci anche una matrice genetica, affinché si manifesti la malattia devono esserci degli eventi shock che la slatentizzino. Può essere un grave trauma, l’utilizzo di sostanze, una condizione economica e sociale di particolare difficoltà.
La cura può esserci quando tutti gli elementi psicosociali vengono riassorbiti, riequilibrati. Trovare lavoro, una casa, un ambiente accogliente. Poter contare su un contesto affettuoso e inclusivo. Tutte cose che a una persona diagnosticata, e quindi si potrebbe dire marchiata con una malattia mentale, vengono negate. C’è quindi chi cade in depressione, chi si automedica utilizzando sostanze, chi non trova più senso nella vita.
Ma si può anche scappare temporaneamente dal disagio dell’isolamento con momenti di sollievo. L’articolo The Importance of Holiday Trips for People With Chronic Mental Health Problems racconta l’altra faccia delle vacanze, quella positiva dell’esperienza di un gruppo di pazienti olandesi con disturbi mentali, dalla quale risulta che il cambiamento di ambiente e il dovere affrontare nuove abitudini e regole possa rappresentare un elemento sfidante positivo per la maggioranza dei partecipanti. Uno dei dati più interessanti è che l’intera vacanza è stata organizzata da un’agenzia di viaggi non-profit, enti poco diffusi in Italia, che si dedicano in modo specifico alle necessità di Ong, di associazioni impegnate nel sociale, di missioni umanitarie. Avere l’opportunità di viaggiare e conoscere nuovi luoghi è vero cibo per la mente, e ancora meglio se i viaggi mettono in relazione la persona con arte e natura. Le istituzioni e il terzo settore dovrebbero implementare le esperienze di autonomia delle persone con disturbi mentali, occasioni che rappresentano anche pause di libertà per le famiglie dei pazienti, mettendo a disposizione operatori specializzati e favorendo il più possibile la presenza di partecipanti senza disturbi per non creare una condizione ghettizzante.
Le reti fra realtà diverse si sono sempre dimostrate efficaci nel risolvere i problemi. Se in una società dove non è garantito il pieno accesso alle necessità primarie per chi soffre di disturbi mentali si provasse almeno a curare il cosiddetto “tempo libero”, che coincide purtroppo con l’intero tempo di vita di chi non ha un lavoro, si potrebbe creare un’alleanza fra privato sociale, realtà di promozione turistica del territorio e istituzioni sanitarie in cui la cura, se è vero che parte dal cambiamento, può attivarsi anche garantendo esperienze di novità, libertà e respiro per chi da troppo tempo è abituato a vivere esclusivamente dentro se stesso.
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