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Lo squalo bianco è quasi in via di estinzione in Sudafrica. E il “killer” in questo caso è l’uomo. Ecco perché non è affatto una buona notizia

Il Paese era diventato simbolo di un possibile turismo ambientale sostenibile, ma avvistare un esemplare del più noto predatore dei mari è diventato una rarità. L'intervista al biologo Alessandro De Maddalena: "Il motivo principale? La sovrapesca. E l'effetto per l'estinzione di un grande predatore può essere devastante"
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Quasi estinto. Vedere uno squalo bianco in Sudafrica è diventato una rarità. “Soltanto sei anni fa, a False Bay, nei mesi estivi che coincidono con la massima presenza di squali, si potevano osservare in un giorno dai quattro ai dieci esemplari di squalo bianco e fino a una trentina di attacchi alle otarie. Oggi se ne vediamo uno è già un miracolo”. Alessandro De Maddalena ha iniziato a lavorare con gli squali bianchi in Sudafrica dal 2010 e dal 2012 si è trasferito stabilmente vicino a Città del Capo. Biologo, già professore a contratto all’Università Milano-Bicocca, De Maddalena è uno dei massimi esperti al mondo di squali, autore di libri di successo sul tema ed è testimone oculare di questo declino. In Sudafrica esistevano tre siti privilegiati per l’avvistamento di squali bianchi (False Bay, Gansbaai e Mossel Bay) anche per effetto delle abbondanti colonie di otarie orsine del Capo. Turisti da tutto il mondo – e molti dall’Italia – contribuivano allo sviluppo di un turismo ambientale sostenibile, del quale il Sudafrica era diventato simbolo. La presenza diradata di esemplari, ora, restringerà sia il campo in cui lavorano gli esperti sia il flusso dei turisti. La spedizione scientifica di febbraio 2025, aperta anche ai turisti, sarà l’ultima in cui visiteremo i tre siti. Poi ci limiteremo a lavorare nell’area della False Bay”.

Le cause? Soprattutto la sovrapesca
Se gli squali – e non solo quelli bianchi – sono letteralmente spariti il motivo è soprattutto uno: la sovrapesca. “Da una parte c’è la pesca diretta. Lo squalo è ricercato per le sue pinne che in Asia sono utilizzate per preparare una costosa zuppa. Poi è pescato per il suo olio di fegato e c’è ancora chi vende su internet i denti di squalo. Ma dall’altra parte gli squali sono vittime della pesca indiretta come catture accidentali. La pesca industriale con reti e palangari va alla ricerca di tonni, pesci spada ed altre specie ittiche ma ogni anno fa strage di milioni di squali. Si stima che ogni anno vengano uccisi dai 60 ai 270 milioni di squali al mondo”, racconta De Maddalena.

La sovrapesca ha un altro effetto indiretto ma comunque deleterio. “La diminuzione di pesce mette a dura prova soprattutto i giovani squali bianchi, che devono crescere ed affinare le proprie tattiche di caccia prima di poter iniziare a cacciare le otarie. Se diminuiscono anche le altre specie di squalo come ad esempio palombi, notidani e verdesche, ancora una volta ne risentiranno gli squali bianchi, poiché sono elementi fondamentali nella loro dieta”. Varie specie di squali, poi, finiscono quotidianamente nelle nostre pescherie e nei supermercati, e a volte vengono ancora vendute con nomi scorretti o come altre specie: una vera frode alimentare. L’Italia è risultata essere il terzo più grande importatore di prodotti di squalo a livello globale, con circa 98mila tonnellate di prodotti di squalo importati, secondo uno studio realizzato dal 2009 al 2021 e diffuso dal Wwf.

Il flop del Sudafrica
Il Sudafrica rappresenta un vero fallimento del turismo ambientale dello shark diving. Era lì a dimostrare che lo squalo valeva più da vivo che da morto. Portava soldi ad un Paese in crisi. Dava lavoro a quattordici operatori, mentre oggi ne restano attivi la metà e chissà ancora per quanto. “Gli operatori con i quali collaboro hanno dovuto cambiare obiettivo di immersioni virando sullo squalo bronzeo” racconta De Maddalena.

Il paradosso è che nel 1991 il Sudafrica è stato il primo Paese al mondo a proteggere lo squalo bianco. “Sì, ma sulla carta – ribatte il biologo – In Sudafrica si pesca nelle aree protette e sono inutili le numerose segnalazioni fatte dal pubblico, dagli operatori eco-turistici, e dalle organizzazioni di conservazione alle istituzioni: la risposta è sempre la stessa, mancano risorse per pattugliare. Ancora oggi nella regione del Natal, molti squali bianchi, estuarini, toro, tigre, mako finiscono impigliati e muoiono nelle reti anti-squalo che sono installate per proteggere i bagnanti dagli squali”.

C’è molto sconforto nelle parole di De Maddalena: “Non impariamo mai la lezione. Dopo aver quasi estinto lo squalo bianco in Mediterraneo stiamo ripetendo la stessa cosa in Sudafrica, Australia, Messico dove la specie era ancora comune fino a pochi anni fa”. C’è un unico messaggio per invertire la tendenza: “Serve aumentare i fermi di pesca a livello globale. Assicurarci che le aree protette lo siano per davvero. Ridurre il nostro consumo di pesce, visto l’aumento della popolazione”.

La complicità di film e documentari “da paura”
In questa guerra allo squalo bianco complici sono anche i documentari e il cinema. Nonostante siano lontani gli anni di Spielberg, lo squalo “assassino” con una narrazione infarcita di sangue e paura continua a spadroneggiare nel piccolo e grande schermo. “Non tutti ma molti documentari di oggi lanciano messaggi confusi – sottolinea il biologo – Se in passato tante cose non si sapevano oggi si mente spudoratamente. Oltre a questo c’è da tenere in conto che i messaggi veicolati dai documentari possono essere contrastanti poiché talora non c’è unanimità di vedute da parte dei ricercatori. Ad esempio, da anni gira l’idea che la colpa della scomparsa degli squali bianchi in Sudafrica sia da imputare agli attacchi di due orche”.

In effetti, negli ultimi cinque anni, nelle acque di Città del Capo sono comparse due orche che puntano ad attaccare il fegato degli squali bianchi e molti documentari ne stanno raccontando le azioni. “È di sicuro un fatto insolito – dice De Maddalena -. Ci sono popolazioni di orche che cacciano i pinnipedi, altre che sono abituate a predare i delfini. Ci sono poi quelle che osserviamo in Norvegia che si alimentano in prevalenza di aringhe. Le popolazioni di orche che prediligono squali e razze sono poche e le orche che attaccano gli squali bianchi sono davvero una rarità”.

E allora che impatto ha la presenza delle orche nell’area? “La maggior parte delle orche arriva nelle acque costiere tra la False Bay e Gansbaai in aprile e maggio, attacca i delfini e poi si allontana. Invece queste due orche atipiche, che prediligono gli squali, si mantengono in quest’area per tutto l’anno”. Una spiegazione De Maddalena se l’è data. “Queste due orche hanno la pinna dorsale collassata, come avviene alle orche che vivono in cattività oppure agli esemplari malati o anziani. È quindi ipotizzabile che tali cetacei non siano in piena salute e forse per questo si dedichino alla caccia degli squali, relativamente facili da catturare e dotati di un grande fegato che per le orche rappresenta una grossa risorsa energetica”. Ad ogni modo il giudizio è severo: “L’idea che la predazione di due orche sia la causa primaria della scomparsa degli squali bianchi è assurda”.

Lo squalo sparisce: perché non è una bella notizia per l’ecosistema
La scomparsa degli squali è un problema per la stabilità degli interi ecosistemi marini, crea un effetto a catena devastante. “Le reali conseguenze sono incalcolabili quando viene rimossa qualunque specie dalla catena alimentare a causa dell’estrema complessità delle relazioni trofiche. Una cosa è certa: i danni creati sono ancora maggiori quando vengono rimossi i grandi predatori, poiché le popolazioni delle specie sulle quali influiscono direttamente o indirettamente sono numerosissime”, spiega lo scienziato. Soltanto a titolo di esempio: “Rimuovendo gli squali bianchi si ha l’aumento delle otarie del Capo, senza la selezione naturale svolta dallo squalo bianco si indebolisce il patrimonio genetico della popolazione delle stesse e si creano anche scompensi in quelle che sono le popolazioni delle numerose prede delle otarie, le quali comprendono anche i pinguini africani, che sono già in declino”.

Gli attacchi (rarissimi) all’uomo
Gli squali tornano prepotentemente sulle pagine di cronaca quando avviene un incidente che coinvolge i bagnanti. Tutti hanno negli occhi e nelle orecchie i racconti di quanto avvenuto il 29 dicembre, quando Gianluca Di Gioia, romano di 48 anni, ha perso la vita nelle acque di Marsa Alam, in Egitto, dopo un attacco di uno squalo tigre. “I motivi per i quali gli squali possono attaccare sono diversi: possono sentirsi minacciati dalla presenza umana, può trattarsi di ‘targeting practice’ (ossia di allenamento alla caccia), e nella maggior parte dei casi si tratta semplicemente di morsi esplorativi, dati per ‘curiosità’. I casi nei quali lo squalo vuole effettivamente alimentarsi della vittima sono molto rari” spiega l’esperto. I problemi nascono per la massiccia presenza di persone proprio nelle aree in cui sono frequenti gli squali potenzialmente pericolosi. Pertanto in quelle zone, per le attività di balneazione, snorkeling e subacquea non c’è altra soluzione che “una accurata educazione della popolazione per evitare gli attacchi”.

Tuttavia è bene ricordare che “i casi di attacchi di squalo sono incredibilmente rari e uccidono solo una decina di persone nel mondo all’anno. E questo considerando tutte le 540 specie di squali esistenti, e non solo le tre specie considerate le più pericolose: squalo bianco, squalo tigre, squalo estuarino”.

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