Un “sistema di vita di relazione doloroso e avvilente“, caratterizzato da reciproche “condotte vessatorie determinanti in capo a tutti i soggetti conviventi uno stato di profondissimo malessere, di sofferenza, di privazioni, di umiliazioni, in definitiva un continuo disagio, incompatibile con le ordinarie condizioni di vita di un normale nucleo familiare”. È questo, secondo i giudici della Corte d’Assise di Modena, il contesto domestico in cui è maturato il femminicidio di Gabriela e Renata Trandafir, madre e figlia di 47 e 22 anni uccise nel 2022 a Castelfranco Emilia dall’allora 69enne Salvatore Montefusco, rispettivamente marito e patrigno delle due vittime. Le motivazioni della sentenza di primo grado, che ha condannato Montefusco a trent’anni e non all’ergastolo, hanno innescato un dibattito nazionale: la Corte, infatti, ha deciso di considerare le attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti, escludendo quindi il carcere a vita, “in ragione della comprensibilità umana dei motivi che hanno spinto l’autore a commettere il fatto-reato”. In particolare, scrivono i magistrati, l’omicida, “arrivato incensurato a settant’anni, non avrebbe mai perpetrato delitti di così rilevante gravità se non spinto dalle nefaste dinamiche familiari che si erano col tempo innescate”. Passaggi contestati da esponenti politici di maggioranza e opposizione e pure dalla ministra delle pari opportunità Eugenia Roccella, che ha definito le frasi “assai discutibili e certamente preoccupanti“.

A scorrere la sentenza di 213 pagine, però, è possibile comprendere il ragionamento su cui si basa la (forse infelice) sintesi dei giudici. Tra gli elementi di un clima familiare divenuto insostenibile, infatti, il provvedimento cita gli “abituali dispetti che le due donne infliggevano al Montefusco impedendogli di dormire nel proprio letto; di utilizzare i bagni della propria abitazione; di prendere un caffè; di muoversi liberamente nella propria casa le cui camere venivano chiuse a chiave e persino di orinare nel water“. Ancora, l’uomo era “costantemente ripreso con le videocamere dei telefoni cellulari; usualmente minacciato e invitato a lasciare la propria abitazione; aggredito anche fisicamente riportandone lesioni refertate in atti”, e infine “sottoposto a continue e reiterate denunce ed all’intervento ormai abituale dei Carabinieri presso l’abitazione”.

Tutte aggressioni, si legge, “obiettivamente lesive della integrità fisica del Montefusco”, che d’altra parte, viene puntualizzato, “ugualmente agiva condotte nel loro insieme da ritenersi maltrattanti della moglie e della di lei figlia conviventi”. A difendere le argomentazioni della sentenza sui social è Giandomenico Caiazza, avvocato ed ex presidente dell’Unione delle Camere penali: “Non lo hanno assolto, gli hanno dato trent’anni all’età di settanta, finirà comunque la sua vita in carcere. Ma è mai possibile che si debbano mitragliare giudizi feroci, richieste di ispezioni, linciaggi morali di due giudici togati e sei giudici popolari, senza sapere nulla di nulla di nulla?”, attacca.

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