Alzi la mano chi è sicuro al cento per cento che Tyson Fury si sia ritirato per davvero. Sì, ok, lo ha annunciato. Ma non è la prima volta che lo fa. Agosto 2022, meno di quattro mesi dopo aver battuto Dilian Whyte davanti ai 90mila di Wembley, The Gipsy King parla al mondo della boxe: “Ho finalmente deciso di ritirarmi il giorno del mio 34esimo compleanno”. Fiumi di inchiostro per raccontare carriera, stranezze e miracoli di un pugile che ha segnato un’epoca. Tutti sanno come è andata a finire: la borsa stratosferica per la riunificazione di tutte le cinture dei massimi era troppo ghiotta per poter rinunciare. E il campione inglese è tornato. Prima sconfitta con Usyk, rivincita e seconda sconfitta, più netta della prima. Troppo per lo zingaro di Morecambe? Forse, ma con lui nulla può essere scontato.
Certo, la doppia batosta lo ha segnato, in conferenza stampa era dimesso, non aveva la brillantezza verbale che ha contraddistinto la sua carriera. Poi c’è il ring, che non mente mai. E ha detto una cosa sola: quel pugile diventato uno dei migliori degli ultimi 40 anni grazie a una tecnica pugilistica degna dei mostri sacri non c’è più. Prevedibile, poco potente, jab e basta, troppo serio, neanche un po’ guascone: insomma, non il Tyson Fury diventato mito. E già questo dato di fatto fa scoprire un pezzo di verità: alla boxe moderna già manca tremendamente uno come lui. L’indizio diventa certezza nel pomeriggio del 13 gennaio, a neanche un mese dall’incontro di Riad. L’annuncio è un reel su Instagram. Video breve, neanche troppo curato, il campione mai così antidivo: “Ciao a tutti, la farò breve. Vorrei annunciare il mio ritiro dalla boxe È stato fantastico, ne ho amato ogni singolo minuto. Dio benedica tutti, ci vediamo dall’altra parte”. Tutto troppo moscio per essere Tyson Fury.
La carta d’identità, tuttavia, è come il ring: non mente. A 36 anni il britannico ha vinto tutto, nei professionisti ha combattuto 37 volte, 34 vittorie (24 per ko), le due sconfitte con Usyk e un pareggio, nel primo incontro della clamorosa e drammatica trilogia tra lui e Deontay Wilder, uno dei duelli più belli di sempre. La sua, finora, non è stata un’esistenza canonica: pugilisticamente Tyson Fury è vissuto tre volte. Agli esordi, dal 2008 in poi, tutti notarono quello strano inglese dinoccolato, non bello da vedere (più armadio da pub che atleta), ma tremendamente efficace, formidabile per tecnica e con un carattere da divo assoluto. Il mondo intero capì che lo zingaro di Morecambe sarebbe diventato il Re Gitano nel 2015: dopo 24 vittorie consecutive sfidò Volodymyr Klyčko, campione dei massimi e imbattuto da 11 anni. Incontro bellissimo, vittoria di Fury indimenticabile, poltrona comoda nella storia della boxe.
Quel Fury, però, è morto dopo qualche mese. La depressione, fiumi di alcool, cocaina in quantità industriali, la squalifica per doping: il re scende dal trono, sprofonda negli inferi, scompare. Dopo tre anni ritorna, forse più forte di prima, di certo più maturo, fuori e dentro il ring. Del resto è padre di sette figli e marito di Paris, una vera risorsa: la donna sopporta ogni spigolatura caratteriale del suo uomo, non facile, bipolare, incline all’autodistruzione ma anche alla grande disciplina. È il 2018, dopo qualche incontro per sgranchirsi pugni e idee, Fury inizia la trilogia contro il campione Wbc Deontay Wilder, The Bronze Bomber, un solo colpo (il destro) ma di potenza raramente vista nella categoria regina. Primo incontro pari, secondo e terzo vinti dall’inglese per ko: il tetto del mondo è gitano. Fury canta a fine incontro sul palco, scherza, sbruffone come non mai, irresistibile guascone campione dei pesi massimi. Ad aprile 2022 Dilian Whyte ottiene di poterlo incontrare sul ring di Wembley, nel match tutto inglese che però sembra tanto un vorrei ma non posso: lo sanno tutti, del resto, che il vero derby britannico è quello tra Tyson Fury e Anthony Joshua, campione che doveva fare la storia e che invece è inciampato in un tozzo messicano (Andy Ruiz Junior) che gli ha tolto certezze, smalto e forse anche coraggio.
Ciò che accade dopo la vittoria contro Dilian Whyte è stata già raccontata: annuncia il ritiro. Sono mesi complessi per lui, tutto raccontato in una serie tv di discreto successo, La famiglia Fury, in cui il campione vive stabilmente a Morecambe e cerca di fare l’uomo qualunque. Padre e marito, chiesa e camminate sul lungomare. Dura poco, l’animale si fa sentire, Fury torna mentalmente pugile. Dicembre 2022, la terza vita del campione gitano è un incontro contro Derek Chisora, pugile di alto livello ma sul viale del tramonto: Fury vince per ko, per molti è tornato quello in grado di annientare Deontay Wilder, il mondo della boxe si gode il suo diamante folle. Nessuno poteva pensare che la sbornia stava per finire. Contro Ngannou arriva un’altra vittoria, ma è troppo sofferta, non alla Fury. Le due sfide contro Usyk fanno il resto: seppur ai punti sono nette, il britannico ha rischiato anche di finire ko, la sua boxe è ridimensionata dalla tecnica pugilistica dell’ucraino, troppo veloce per i riflessi un po’ appannati dell’ex campione. Che ieri ha deciso di farsi da parte. Non è un lieto fine, inutile nasconderlo. Per una storia sempre sopra le righe, gli appassionati si aspettavano un finale thrilling, di certo non una storia dimessa su Instagram. Non è da Tyson Fury. Che proprio per questo già manca da morire agli amanti del pugilato, forse a causa della pochezza della categoria regina (Usyk a parte), in crisi di campioni e anche di nuove speranze (tranne pochissime eccezioni).
La pochezza, si sa, scatena la suggestione. E infatti ci sono quelli che vedono una sceneggiatura già scritta dietro l’annuncio low profile di Fury. Perché, inutile nasconderlo, una storia così complessa e una carriera così entusiasmante meritano un epilogo che sia epico almeno quanto l’eredità che Fury lascia al mondo del pugilato. Quindi la sfida delle sfide, quella capace di muovere miliardi, quella che fa tornare l’Europa al centro della boxe dopo la sbornia saudita: Tyson Fury-Anthony Joshua a Wembley. Certo, sarebbe l’incontro tra due pugili ormai in fase calante, più show che sport. Ma cosa non si farebbe per vedere la quarta vita sportiva del campione più matto di sempre? “Dick Turpin indossava una maschera” ha detto Fury ieri, ricordando la figura romantica del brigante inglese un po’ zingaro e un po’ Robin Hood. Che sia un indizio sul suo prossimo travestimento lungo la passerella che porta al ring di Wembley? Del resto ogni certezza, con Fury, è un montante che arriva dopo un jab schivato.
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Tyson Fury si ritira: il non addio del campione vissuto tre volte (in attesa della quarta)
L'ex campione britannico ha annunciato il suo addio a neanche un mese dalla sconfitta contro Usyk. Al mondo della boxe già manca il suo carattere debordante e spera nell'ennesimo ritorno per la sfida tutta inglese con Joshua a Wembley
Alzi la mano chi è sicuro al cento per cento che Tyson Fury si sia ritirato per davvero. Sì, ok, lo ha annunciato. Ma non è la prima volta che lo fa. Agosto 2022, meno di quattro mesi dopo aver battuto Dilian Whyte davanti ai 90mila di Wembley, The Gipsy King parla al mondo della boxe: “Ho finalmente deciso di ritirarmi il giorno del mio 34esimo compleanno”. Fiumi di inchiostro per raccontare carriera, stranezze e miracoli di un pugile che ha segnato un’epoca. Tutti sanno come è andata a finire: la borsa stratosferica per la riunificazione di tutte le cinture dei massimi era troppo ghiotta per poter rinunciare. E il campione inglese è tornato. Prima sconfitta con Usyk, rivincita e seconda sconfitta, più netta della prima. Troppo per lo zingaro di Morecambe? Forse, ma con lui nulla può essere scontato.
Certo, la doppia batosta lo ha segnato, in conferenza stampa era dimesso, non aveva la brillantezza verbale che ha contraddistinto la sua carriera. Poi c’è il ring, che non mente mai. E ha detto una cosa sola: quel pugile diventato uno dei migliori degli ultimi 40 anni grazie a una tecnica pugilistica degna dei mostri sacri non c’è più. Prevedibile, poco potente, jab e basta, troppo serio, neanche un po’ guascone: insomma, non il Tyson Fury diventato mito. E già questo dato di fatto fa scoprire un pezzo di verità: alla boxe moderna già manca tremendamente uno come lui. L’indizio diventa certezza nel pomeriggio del 13 gennaio, a neanche un mese dall’incontro di Riad. L’annuncio è un reel su Instagram. Video breve, neanche troppo curato, il campione mai così antidivo: “Ciao a tutti, la farò breve. Vorrei annunciare il mio ritiro dalla boxe È stato fantastico, ne ho amato ogni singolo minuto. Dio benedica tutti, ci vediamo dall’altra parte”. Tutto troppo moscio per essere Tyson Fury.
La carta d’identità, tuttavia, è come il ring: non mente. A 36 anni il britannico ha vinto tutto, nei professionisti ha combattuto 37 volte, 34 vittorie (24 per ko), le due sconfitte con Usyk e un pareggio, nel primo incontro della clamorosa e drammatica trilogia tra lui e Deontay Wilder, uno dei duelli più belli di sempre. La sua, finora, non è stata un’esistenza canonica: pugilisticamente Tyson Fury è vissuto tre volte. Agli esordi, dal 2008 in poi, tutti notarono quello strano inglese dinoccolato, non bello da vedere (più armadio da pub che atleta), ma tremendamente efficace, formidabile per tecnica e con un carattere da divo assoluto. Il mondo intero capì che lo zingaro di Morecambe sarebbe diventato il Re Gitano nel 2015: dopo 24 vittorie consecutive sfidò Volodymyr Klyčko, campione dei massimi e imbattuto da 11 anni. Incontro bellissimo, vittoria di Fury indimenticabile, poltrona comoda nella storia della boxe.
Quel Fury, però, è morto dopo qualche mese. La depressione, fiumi di alcool, cocaina in quantità industriali, la squalifica per doping: il re scende dal trono, sprofonda negli inferi, scompare. Dopo tre anni ritorna, forse più forte di prima, di certo più maturo, fuori e dentro il ring. Del resto è padre di sette figli e marito di Paris, una vera risorsa: la donna sopporta ogni spigolatura caratteriale del suo uomo, non facile, bipolare, incline all’autodistruzione ma anche alla grande disciplina. È il 2018, dopo qualche incontro per sgranchirsi pugni e idee, Fury inizia la trilogia contro il campione Wbc Deontay Wilder, The Bronze Bomber, un solo colpo (il destro) ma di potenza raramente vista nella categoria regina. Primo incontro pari, secondo e terzo vinti dall’inglese per ko: il tetto del mondo è gitano. Fury canta a fine incontro sul palco, scherza, sbruffone come non mai, irresistibile guascone campione dei pesi massimi. Ad aprile 2022 Dilian Whyte ottiene di poterlo incontrare sul ring di Wembley, nel match tutto inglese che però sembra tanto un vorrei ma non posso: lo sanno tutti, del resto, che il vero derby britannico è quello tra Tyson Fury e Anthony Joshua, campione che doveva fare la storia e che invece è inciampato in un tozzo messicano (Andy Ruiz Junior) che gli ha tolto certezze, smalto e forse anche coraggio.
Ciò che accade dopo la vittoria contro Dilian Whyte è stata già raccontata: annuncia il ritiro. Sono mesi complessi per lui, tutto raccontato in una serie tv di discreto successo, La famiglia Fury, in cui il campione vive stabilmente a Morecambe e cerca di fare l’uomo qualunque. Padre e marito, chiesa e camminate sul lungomare. Dura poco, l’animale si fa sentire, Fury torna mentalmente pugile. Dicembre 2022, la terza vita del campione gitano è un incontro contro Derek Chisora, pugile di alto livello ma sul viale del tramonto: Fury vince per ko, per molti è tornato quello in grado di annientare Deontay Wilder, il mondo della boxe si gode il suo diamante folle. Nessuno poteva pensare che la sbornia stava per finire. Contro Ngannou arriva un’altra vittoria, ma è troppo sofferta, non alla Fury. Le due sfide contro Usyk fanno il resto: seppur ai punti sono nette, il britannico ha rischiato anche di finire ko, la sua boxe è ridimensionata dalla tecnica pugilistica dell’ucraino, troppo veloce per i riflessi un po’ appannati dell’ex campione. Che ieri ha deciso di farsi da parte. Non è un lieto fine, inutile nasconderlo. Per una storia sempre sopra le righe, gli appassionati si aspettavano un finale thrilling, di certo non una storia dimessa su Instagram. Non è da Tyson Fury. Che proprio per questo già manca da morire agli amanti del pugilato, forse a causa della pochezza della categoria regina (Usyk a parte), in crisi di campioni e anche di nuove speranze (tranne pochissime eccezioni).
La pochezza, si sa, scatena la suggestione. E infatti ci sono quelli che vedono una sceneggiatura già scritta dietro l’annuncio low profile di Fury. Perché, inutile nasconderlo, una storia così complessa e una carriera così entusiasmante meritano un epilogo che sia epico almeno quanto l’eredità che Fury lascia al mondo del pugilato. Quindi la sfida delle sfide, quella capace di muovere miliardi, quella che fa tornare l’Europa al centro della boxe dopo la sbornia saudita: Tyson Fury-Anthony Joshua a Wembley. Certo, sarebbe l’incontro tra due pugili ormai in fase calante, più show che sport. Ma cosa non si farebbe per vedere la quarta vita sportiva del campione più matto di sempre? “Dick Turpin indossava una maschera” ha detto Fury ieri, ricordando la figura romantica del brigante inglese un po’ zingaro e un po’ Robin Hood. Che sia un indizio sul suo prossimo travestimento lungo la passerella che porta al ring di Wembley? Del resto ogni certezza, con Fury, è un montante che arriva dopo un jab schivato.
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Agrigento, 18 gen. (Adnkronos) - Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella è stato salutato, al termine del suo intervento, da una standing ovation all Teatro Pirandello di Agrigento. Tutti in piedi per salutare il Capo dello Stato che ha raggiunto anche le ultime file con i sindaci che indossano il tricolore per una stretta di mano.
Agrigento, 18 gen. (Adnkronos) - "Viviamo un tempo in cui tutto sembra esprimersi ed esaurirsi sull’istante del presente. In cui la tecnologia pretende, talvolta, di monopolizzare il pensiero piuttosto che porsi al servizio della conoscenza. La cultura, al contrario, è rivolgersi a un orizzonte ampio, ribellarsi a ogni compressione del nostro umanesimo, quello che ha reso grande la nostra civiltà. Ad Agrigento, in Sicilia, in tutto il nostro Paese, nella nostra amata Italia". Lo ha affermato il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione dell'inaugurazione di Agrigento capitale italiana della cultura 2025.
"Guardiamo con speranza a questo anno da vivere insieme -ha concluso il Capo dello Stato- con la voglia di accogliere, di conoscere, di dialogare, di compiere un percorso affascinante, in compagnia gli uni degli altri".
Agrigento, 18 gen. (Adnkronos) - "In un luogo, come Agrigento, ove il patrimonio monumentale è dominante, potrebbe prevalere la convinzione che cultura sia ammirazione delle vestigia del passato. Ma la cultura non ha lo sguardo volto all’indietro. Piuttosto ha sempre sollecitato ad alzarlo verso il domani". Lo ha affermato il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione dell'inaugurazione di Agrigento capitale italiana della cultura 2025.
"Diceva Thomas Eliot: 'Se smettiamo di credere al futuro, il passato cesserà di essere il nostro passato: diventerà il passato di una civilizzazione estinta'. Ricordare, tener conto delle lezioni del passato è fondamentale -ha sottolineato il Capo dello Stato- ma la storia è levatrice dell’avvenire. Essere fedeli alla propria storia significa, appunto, costruire il futuro. Nel nostro caso l’Italia, con i giacimenti culturali che ovunque la contraddistinguono, è essa stessa lezione di dialogo, di pace, di dignità, per l’oggi e per il domani".
Agrigento, 18 gen. (Adnkronos) - Agrigento capitale della cultura 2025 è "la grande occasione per non fallire". Lo ha detto il ministro della Cultura Alessandro Giuli alla cerimonia di inaugurazione di Agrigento capitale della cultura 2025.
Agrigento, 18 gen. (Adnkronos) - "È cultura il sapere di chi è aperto alla conoscenza del mondo, di chi ha sete di conoscere altri uomini, di chi sa che la vita è frutto dell’incontro. La cultura, cioè, è la vita. Un sentiero in cui l’uomo è in perenne movimento, a contatto con la propria storia, con quella degli altri. Le scoperte e la loro condivisione accrescono le opportunità. Non è una condizione statica, non è l’inerzia che nutre la storia, bensì la crescita del sapere che si trasmette e si diffonde. La crescita dell’incontro, del dialogo. Il cammino di Agrigento nei secoli ne è testimonianza. L’Akragas dei greci. L’Agrigentum dei romani. La Kerkent degli arabi. La Girgenti siciliana di secoli addietro". Lo ha affermato il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione dell'inaugurazione di Agrigento capitale italiana della cultura 2025.
Agrigento, 18 gen. (Adnkronos) - "Mai come adesso comprendiamo l’urgenza di un riequilibrio, di un nuovo sviluppo che potrà essere veramente tale solo se sarà sostenibile sul piano ambientale e sociale. Mai come adesso abbiamo coscienza del fatto che l’opera delle istituzioni e le politiche pubbliche sono importantissime e tuttavia non basteranno se non verranno sostenute da una corale responsabilità dei cittadini". Lo ha affermato il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione dell'inaugurazione di Agrigento capitale italiana della cultura 2025.
Agrigento, 18 gen. (Adnkronos) - "Agrigento intende parlare al resto del Paese e all’Europa di cui è parte. Agrigento, centro irradiatore dell’antica civiltà greca già nel sesto secolo avanti Cristo. L’Akragas di Empedocle, che definì 'radici' i quattro elementi che indicava come costitutivi del tutto: il fuoco, l’aria, la terra, l’acqua. Questi quattro elementi sono ora stilizzati nel logo ufficiale di Agrigento Capitale della Cultura: per Empedocle l’unità degli elementi era la scintilla della nascita di ogni cosa, la separazione invece era causa di morte. Un simbolo che ripropone la necessità di ricomporre, di rigenerare coesione, di procedere insieme". Lo ha affermato il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione dell'inaugurazione di Agrigento capitale italiana della cultura 2025.
"Lo chiede -ha proseguito il Capo dello Stato- il ricordo dei morti delle guerre che insanguinano l’Europa, il Mediterraneo e altre numerose purtroppo regioni del pianeta. Lo impongono le tragiche violazioni dei diritti umani che cancellano dignità, e la stessa vita. Lo esigono le diseguaglianze esistenti, crescenti. Le povertà estreme, le marginalità. Lo richiede il lamento della terra, violata dallo sfruttamento senza limite delle risorse, con le sue catastrofiche conseguenze, a partire dal mutamento climatico. La cultura è una sorgente di umanità cui attingere per dotarci di nuovo, indispensabile dinamismo".