di Leonardo Botta

Sono un tifoso del Napoli. Non uno di quelli con il pedigree. Sono andato sì e no tre o quattro volte al San Paolo (quando lo stadio Diego Maradona si chiamava così). Ho gioito parecchio per il primo e il secondo scudetto, mi sono rallegrato per il terzo. Mi sono dispiaciuto ma non sono certo andato in depressione né “ho picchiato mia figlia” (cit. Beppe Viola) quando la squadra subì l’onta del fallimento e della ripartenza dalla casella 1 di quel folle gioco del Monopoli che è il calcio. E non sono abbonato a Dazn, perché decine di euro per vedere quattro partite mensili della mia squadra del cuore (delle altre non mi interessa un fico secco; e, giuro, non mi sono attrezzato con il “pezzotto”) mi paiono una spesa ingiustificata.

Vabbè, ho divagato abbastanza con questi preamboli, solo per commentare la partenza di Khvicha Kvaratskhelia alla volta di Parigi, folgorato sulla via degli Champs-Élysées da quintali di petroldollari (o petroleuro, non so questi arabi proprietari del Paris Saint-Germain con quale moneta paghino). Lo faccio perché mi ha incuriosito lo psicodramma collettivo seguito prima ai rumors, poi alle trattative concrete, infine alla stipula del contratto del calciatore georgiano con i campioni di Francia.

Niente di nuovo: noi napoletani siamo quelli che, in puro stile da sceneggiata, coniarono il termine “core ‘ngrato” per Josè Altafini, ex calciatore azzurro autore della rete che spense i sogni di gloria partenopei in un Juve-Napoli di mezzo secolo fa. Che affollano il Largo Maradona più di Piazza Plebiscito o via Toledo. Che piangono teneramente per il piccolo Daniele, supertifoso azzurro che ci ha lasciato da qualche giorno.

Uno psicodramma tutto sommato comprensibile: l’anno scorso, dopo una stagione disastrosa, i tifosi si erano abituati all’idea di privarsi dell’altra stella e capocannoniere della squadra dello scudetto, Victor Osimhen. Ma ora no: c’è il primo posto in classifica e la prospettiva concreta di competere fino alla fine del campionato con l’altra grande protagonista, l’Inter (l’Atalanta è gran bella squadra, ma non credo attrezzata per ripetere il miracolo del Verona di Bagnoli); perciò tutto avrebbero pensato tranne che di veder partire Khvicha a gennaio.

E invece è andata così. In fondo, perché così doveva andare e così va bene per tutti.

Per il presidente De Laurentiis e per la società, che incassano un’ottantina di milioni scongiurando lo spettro di veder partire in futuro il loro ormai ex gioiello a parametro zero, come talvolta capita da quando nel calcio vige la sentenza Bosmann. Per il calciatore, che di milioni all’ombra della Torre Eiffel ne intascherà una decina all’anno: molti di più di quanti ne intascava e ne avrebbe intascati a Napoli anche nel caso di un rinnovo del contratto.

Era arrivato sotto al Vesuvio con quel suo nome da codice fiscale, mentre i commenti più benevoli erano: “E chisto chi è?”. E aveva sorpreso tutti con quei dribbling ubriacanti dei quali i calciatori avversari non ci capivano una mazza. Poi pian piano quei dribbling sono diventati più prevedibili e meno ficcanti e forse, malauguratamente, prevedibili potrebbero restarlo anche in futuro. Allora magari si sarà fatto un paio di conti in tasca, avrà pensato che quando gli ricapitava più l’occasione di un contratto a otto cifre con gli sceicchi franco-qatarioti! E chi sono io per biasimarlo?

In fondo è andata bene anche per i tifosi: nella logica del chiodo-scaccia-chiodo hanno imparato ad amare un altro calciatore, il brasiliano David Neres che in fatto di funambolismi non pare secondo a Kvara ed è pure veloce come Beep Beep che non c’è Willy Coyote che lo prenda.

Ciao, Khvicha, è stato bello. E tra i tanti momenti belli voglio ricordare il gol all’Atalanta, quando nascondesti il pallone tra otto difensori prima di insaccarlo sotto la traversa: mi sembravi Adriano Celentano che, da cestista improvvisato ne “Il bisbetico domato”, infilò la palla sotto la maglietta prendendosi gioco degli increduli avversari.

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