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Sanità, Pnrr al palo: attive meno del 50% delle case di comunità previste (e una su tre è senza medici). Poco per gli anziani non autosufficienti

Con la scadenza di giugno 2026 sempre più vicina, i numeri mostrano un forte ritardo e gravi carenze di personale. La riforma dell'assistenza agli anziani non autosufficienti delude: lontano un modello integrato di servizi domiciliari, residenziali e di supporto economico
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Le case di comunità diventeranno un punto di riferimento per i cittadini, forniranno assistenza sanitaria continua grazie alla presenza, sette giorni su sette, dei medici di famiglia e contribuiranno a ridurre il ricorso inappropriato all’ospedale, in particolar modo al pronto soccorso. Parola del ministro della Salute, Orazio Schillaci, che solo pochi giorni fa ha fatto il punto sul futuro della sanità territoriale e sul ruolo che dovranno avere i medici di base nella riforma del sistema salute del nostro Paese. Prevista dal Pnrr, la riorganizzazione della sanità territoriale è cruciale per affrontare l’invecchiamento della popolazione e l’aumento dei malati cronici in Italia. Eppure, con la scadenza di giugno 2026 sempre più vicina, i numeri mostrano un forte ritardo: secondo l’ultimo monitoraggio dello scorso giugno, meno della metà delle case di comunità previste è attivo, oltretutto con gravi carenze di personale e un’offerta di servizi limitata. Inoltre, a preoccupare esperti e addetti ai lavori riguardo il futuro del secondo paese più anziano del mondo, c’è anche la battuta d’arresto subita dalla riforma dell’assistenza agli anziani non autosufficienti, inserita anch’essa nel Pnrr. Se la legge delega aveva suscitato grande entusiasmo, il decreto che doveva mettere in pratica la riforma ha deluso le aspettative, attuando solo in minima parte quanto previsto dal testo approvato dal Parlamento.

Il ritardo della sanità territoriale – La riorganizzazione della sanità territoriale mira a dotare l’Italia di una rete capillare e organizzata, con un approccio integrato e digitale, capace di rispondere ai bisogni sanitari della popolazione senza che questa debba per forza ricorrere al pronto soccorso o agli ospedali. Per questo, entro il 2026 è prevista la creazione di 1.038 case di comunità. Tuttavia i numeri mostrano un forte ritardo. A giugno 2024 ne erano attive solo 413, concentrate in sole 11 regioni del paese. Inoltre, attive non significa funzionanti: in 120 non è presente neanche un medico. Mentre in altre 58 c’è per meno di 30 ore settimanali. Una condizione di carenza di organico che rischia di trasformarle in “cattedrali nel deserto”, non in grado di erogare le prestazioni.

Il nodo dei medici di famiglia – Un altro tema centrale è la riforma del ruolo dei medici di famiglia. Al vaglio del ministero della Salute c’è la possibilità che questi medici, attualmente liberi professionisti convenzionati con il Ssn, vengano assunti direttamente come dipendenti pubblici, per lavorare nelle case di comunità. Una prospettiva definita “assurda” da Filippo Anelli, presidente della Federazione degli ordini dei medici, e considerata sbagliata anche dalla Federazione Medici Territoriali, il sindacato rappresentativo dei medici di medicina generale che minaccia una dura mobilitazione nel caso in cui si prosegua in questa direzione.

La riforma dell’assistenza agli anziani non autosufficienti – Oltre a quella della sanità territoriale, anche la riforma dell’assistenza agli anziani non autosufficienti ha subito battute d’arresto. La legge delega 33/2023 prometteva di rivoluzionare il settore, introducendo un modello integrato di servizi domiciliari, residenziali e di supporto economico. Tuttavia, il decreto legislativo 29/2024 ha deluso le aspettative, attuando solo in minima parte le indicazioni del testo e rimandando molte decisioni a futuri provvedimenti. Le criticità principali della riforma sono state evidenziate dal “Patto per un nuovo welfare per la non autosufficienza”, un network di organizzazioni della società civile. Secondo il Patto, l’approvazione del decreto non comporta grossi cambiamenti nel sistema assistenziale del Paese: i servizi domiciliari e residenziali rimangono inadeguati e l’indennità di accompagnamento continua a essere erogata con criteri obsoleti e inefficaci.

I servizi domiciliari e residenziali – L’Italia manca ancora di un sistema unitario di assistenza domiciliare per la non autosufficienza. Attualmente, i servizi esistenti, come l’Assistenza domiciliare integrata (Adi), offrono prestazioni limitate e frammentarie, con una media di sole 16 ore annue di assistenza per ogni anziano. Una cifra che riflette un modello prestazionale piuttosto che una presa in carico integrata e continuativa. E anche nei servizi residenziali il nostro Paese è rimasto indietro. Il tasso di ricovero in strutture per anziani non autosufficienti in Italia è dell’1,6%, ben al di sotto della media europea del 3,6%. La legge delega aveva posto l’accento sull’importanza di garantire un’intensità assistenziale adeguata, personale qualificato e ambienti sicuri e familiari. Tuttavia, il decreto non ha definito strategie concrete per raggiungere tali obiettivi, rimandando il problema.

L’indennità di accompagnamento – Infine, un altro punto fondamentale della legge delega era la riformulazione dell’indennità di accompagnamento – introdotta nel 1980 e mai modificata – che prevede l’erogazione di una somma fissa, indipendentemente dal grado di bisogno assistenziale. La proposta di riforma prevedeva, invece, l’introduzione di una nuova “prestazione universale”, modulata in base al grado di bisogno e che avrebbe dato la possibilità di scegliere come ricevere il sostegno, se tramite contributi economici o tramite servizi personalizzati. Il decreto legge 29/2024, invece, ha introdotto solo una misura sperimentale e temporanea, valida per il biennio 2025-2026. Attiva dal 2 gennaio scorso, la “prestazione (non molto) universale” raggiungerà solo 25mila beneficiari, con un assegno dal valore di 850 euro mensili, continuando a portare avanti, denunciano le associazioni, un sistema inefficiente e datato.

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