Sono più di 4700 (!) e hanno nomi sconosciuti ai più come acido perfluoroottanoico, oppure perfluoroottansolfonato, oppure ancora perfluorononanoato di ammonio. Ma un nome conosciuto è invece il Teflon. Sono i Pfas (acronimo inglese di “perfluorinated alkylated substances”), prodotti chimici nati nella prima metà del secolo scorso e utilizzati nell’industria a partire dagli anni Cinquanta, che conferiscono alle superfici repellenza all’acqua e ai grassi. A differenza di altri prodotti chimici visibili e tangibili, i Pfas non si vedono, non si toccano, ma esistono e sono dappertutto (di recente l’allarme è stato sollevato anche per la carta da forno).

E forse non è un caso che se si digita “Pfas” su Google, uno dei primi siti che li riporta sia la Fondazione Umberto Veronesi per la ricerca sul cancro. Perché i Pfas si accumulano nell’ambiente e negli organismi, con conseguenze alla lunga ancora non certe, ma che potrebbero portare anche malattie degenerative. Il primo allarme al riguardo fu sollevato nel 1998 dall’Agenzia per la Protezione Ambientale degli Stati Uniti (Epa) parlando esplicitamente di prodotti che “non si degradano mai una volta rilasciati e si accumulano nei nostri corpi”. Grido che non destò molto allarme e solo nel 2006 l’Ue cominciò a preoccuparsi avviando un progetto col fine di stabilire la presenza di Pfas nelle acque e nei sedimenti dei maggiori fiumi europei. E solo nel 2011 invece si svegliò dal sonno il nostro Ministero dell’Ambiente avviando uno studio sul rischio ambientale e sanitario associato alla contaminazione da Pfas nel bacino del Po e nei principali bacini fluviali italiani.

Fu anche grazie a quello studio che si cominciò a parlare di Pfas in Italia e in particolare, nel 2013, quando se ne scoprì la presenza nel terreno e nelle acque, anche sotterranee, di tre province venete (Vicenza, Padova e Verona), definite “zona rossa”, con circa 150.000 persone interessate, cioè con alte percentuali di Pfas nel sangue e rischio di malattie degenerative e cardiovascolari, come denunciò uno studio dell’Università di Padova condotto tra il 1985 e il 2018. In particolare lo studio evidenziò che in tale periodo si era registrato un eccesso di oltre 3800 morti rispetto all’atteso: una morte in più ogni 3 giorni. E questo probabilmente proprio a causa dei Pfas. In più, problemi alla tiroide, deficit di attenzione nei bambini, neonati con basso peso alla nascita, interruzioni di gravidanza. E, a monte, si scoprì che lo sversamento di queste sostanze era soprattutto ad opera di un’industria, fallita proprio nel 2018: la Mitemi (di Trissino, provincia di Vicenza), contro i cui rappresentanti attualmente è in corso un procedimento penale presso il Tribunale di Vicenza.

A questa scoperta seguì quella dell’inquinamento prodotto dalla Solvay di Spinetta Marengo nell’Alessandrino. Ma la triste realtà è che l’inquinamento da Pfas è ben più diffuso di quanto si pensi e che quasi dappertutto è impossibile risalire agli attori del processo inquinante. È quanto emerge da uno studio condotto da Greenpeace, denominato ”Acque senza Veleni”, che ha avuto luogo tra settembre e ottobre 2024, per verificare la contaminazione da Pfas nell’acqua potabile in tutte le regioni d’Italia. Studio da cui è emerso che il 79% dei campioni di acqua potabile nella nostra penisola risulta contaminato. Le regioni con situazioni più critiche: Liguria, Trentino Alto Adige, Valle d’Aosta, Veneto. Le città più inquinate: Arezzo, Milano e Perugia. Aperta parentesi: facciamo i complimenti a Milano che si situa ai vertici dell’inquinamento ambientale in Italia sia per aria sia per acqua. Chiusa parentesi. Lo studio di Greenpeace si conclude indicando anche alcune soluzioni, tipo il divieto di produzione di Pfas in Italia, e il garantire a tutta la popolazione l’accesso ad acqua potabile priva di Pfas.

Giova in conclusione ricordare come il rapporto del Sistema Nazionale per la Protezione Ambientale nel 2021 offriva un quadro preoccupante della presenza di pesticidi nelle acque superficiali e sotterranee italiane. Pesticidi che peraltro emergono in rilevante quantità anche nei campioni di frutta e verdura. Domanda che sorge spontanea: quando si parla di transizione ecologica, e quindi di affrancamento da fonti fossili, non sarebbe bene affrontare il tema di quanto i loro derivati sono direttamente dannosi per la salute umana? O forse non conviene?

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