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Ci sono voluti sette anni per annullare la sentenza dei ’30 secondi’ per violenza sessuale

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La richiesta di giustizia di Barbara D’Astolfo è stata accolta, ma ci sono voluti sette anni. Tanto tempo è trascorso dal giorno in cui, nel 2018, accusò Raffaele Meolo, sindacalista della Cisl, di averla molestata. Differenza Donna le è stata accanto e l’ha sostenuta insieme all’avvocata Teresa Manente. Si tratta della sentenza più volte citata come quella “dei 30 secondi” e, dopo l’assoluzione della Corte D’Appello di Milano, ha attraversato la cronaca tra l’indignazione e lo sconcerto di tante donne e attiviste, suscitando anche amara ironia. L’attore Andrea Pennacchi, qualche sera fa a teatro, recitando la parte di un arlecchino che molestava un’ostessa, aveva fatto una battuta: “Se ti tocco per 30 secondi non è reato e posso andare avanti e toccarti per 30 secondi anche per un’ora e mezza”.

Secondo i giudici della Corte d’Appello di Milano, la condotta del sindacalista non aveva “(senz’altro) vanificato ogni possibile reazione della parte offesa, essendosi protratta per una finestra temporale“, “20-30 secondi” che “le avrebbe consentito anche di potersi dileguare”. Un comportamento che non sarebbe stato tale “da porre la persona offesa in una situazione di assoluta impossibilità di sottrarsi alla condotta”. La Cassazione ha bocciato quelle motivazioni. Il processo è da rifare.

La storia di Barbara D’Astolfo, hostess per voli charter all’epoca dei fatti, ora insegnante, ci racconta quanto sia complesso e difficile per le donne vedere riconosciute le violazioni dei loro diritti. Ma questa è anche una storia di discriminazioni che si sovrappongono. Nel 2018, D’Astolfo aveva aperto una vertenza sindacale per aver subito mobbing da parte dell’azienda e si era rivolta al sindacato per una consulenza. I motivi della vertenza? Aveva chiesto di essere esonerata da voli di lunga durata dopo la nascita della seconda figlia, ma nel Paese che esalta la maternità sulla carta e umilia le lavoratrici che scelgono di avere figli le cose non erano andate bene. Aveva aperto un contenzioso con l’azienda per essere stata retrocessa ed emarginata.

Barbara D’Astolfo è stata discriminata come madre, come lavoratrice, come donna e alla fine anche come cittadina. La sentenza della Corte d’Appello di Milano andrebbe studiata passaggio per passaggio mettendo a fuoco i pregiudizi e gli stereotipi che emergono nella motivazione: l’accettazione implicita che la sessualità maschile possa essere predatoria, lo spostamento della responsabilità sulla donna che deve saper reagire prontamente come qualunque preda; infine, la mancanza di conoscenza delle risposte fisiologiche e psicologiche all’aggressione. La letteratura scientifica ha descritto ampiamente le reazioni delle vittime: la confusione, il disagio, la paura, il freezing. Quante volte le donne, compresa la sottoscritta, si sono trovate di fronte a interlocutori che cambiavano improvvisamente atteggiamento? La cordialità che scivola in aggressività, la minaccia o più spesso la manipolazione di chi ruba un contatto e invade la sfera intima senza che ci sia stato alcun consenso. Accade in contesti formali o durante incontri del tutto occasionali: durante una visita medica, in ufficio, sul treno accanto a sconosciuti, su un ascensore. Accade a operaie, impiegate, avvocate, magistrate. Giovani o anziane.

Ivano Chiesa, legale dell’ex sindacalista, ha commentato l’ordinanza della Cassazione con sarcasmo, “per approcciare una donna ora ci vorrà un notaio”. Caro avvocato, so bene che il suo ruolo è quello di difendere il suo cliente ma il repertorio “non si può più corteggiare una donna” anche no! L’evoluzione antropologica ha dotato gli umani della fonazione e mi creda: alle donne si può parlare. Esiste l’empatia per connettersi con le emozioni del prossimo. Infine, l’intelligenza ci fa comprendere il contesto della relazione con gli altri. Se una donna sta sfogliando fascicoli per una vertenza sindacale, secondo me, vuole fare causa. Anche questa volta dobbiamo ragionare sull’asimmetria di potere tra uomini e donne e su una sessualità che diventa strumento di controllo e dominio sui corpi.

Non so quali motivazioni abbiano portato Barbara D’Astolfo a lasciare il lavoro da hostess. In alcune interviste diceva di amare profondamente il suo lavoro. Ci sono donne che dopo essere state molestate si sono licenziate anche se avevano ottenuto la condanna degli aggressori. Deluse per la scarsa solidarietà di colleghe e colleghi e spaventate dall’ostilità di datori di lavoro che non volevano “beghe” nelle loro aziende. La stragrande maggioranza resta in silenzio e non denuncia.

Questa è una battaglia difficile. Lo stigma sociale, la paura di non essere credute spinge alla rinuncia. Ma si deve avere fiducia. Non sono poche le sentenze che sanno leggere il contesto della violenza maschile. Il tribunale di Ravenna, mesi fa, in un caso molto simile, ha condannato un educatore a due anni di carcere per aver allungato le mani su una collega durante un incontro di lavoro. Solo che per alcune, forse troppe, non dovrebbe essere così difficile.

@nadiesdaa

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