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Duran Duran tra le più grandi band della new wave. Non siete d’accordo? Vi spiego perché

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Questa sera, giovedì 13 febbraio 2025, i Duran Duran celebrano il loro ritorno a Sanremo, a quarant’anni dalla loro prima esibizione al Festival.

L’occasione mi ha spinto a scrivere un post qualche giorno fa, in cui li menzionavo tra le grandi band della New Wave. Apriti cielo. Alcuni (meno male, non tutti) sono insorti: i Duran Duran con la New Wave? Ma per favore. Nulla a che vedere con i Joy Division, niente a che fare con i Cure. Stessa solfa da decenni, una di quelle convinzioni incrollabili che si tramandano dagli anni 80, tra luoghi comuni e beata ignoranza. Eppure, la realtà è un’altra. E a chiarirla, oltre ai fatti, mi ha aiutato Giancarlo Punzi, giornalista e critico musicale, profondo conoscitore della scena post-punk e della band di Simon Le Bon. Il confronto con lui è stato illuminante, e lo ringrazio per avermi aiutato a mettere a fuoco alcuni aspetti sul gruppo. Nei consueti nove punti di questo blog, proverò a fare luce sulla portata artistica dei Duran Duran e sul perché abbiano pieno diritto di stare tra i grandi di quel periodo. Piaccia o no.
Cominciamo!

1. Il ritorno in Italia e il legame con Sanremo
Era il 1985 quando salirono sul palco con The Wild Boys, in pieno delirio da massimo splendore. Un’esibizione che fece epoca, ma che in Italia venne letta – e strumentalizzata – in modo curioso. Per alcuni, quei ragazzi non avevano nulla di “selvaggio”, solo l’ennesimo fenomeno patinato da poster in cameretta. Un fraintendimento che ancora oggi resiste, come se il successo fosse un peccato.

2. The Wild Boys e l’appropriazione indebita
Ovunque fu una svolta commerciale, su questo non ci sono dubbi. Ma mentre all’estero la canzone attingeva a un immaginario distopico ispirato a William S. Burroughs, in Italia divenne l’inno dei paninari, movimento di dementi che con i Duran Duran non aveva nulla a che fare: riferimenti letterari, scenari futuribili, una visione. Questa sera torneranno per cantarla, celebrandone il significato reale. Eh sì, perché pensate davvero che John Taylor e soci sappiano chi fossero i paninari? Il cielo non voglia che qualcuno glielo spieghi, o rischiamo che sul palco non ci salgano proprio.

3. Gli anni 80: surrealismo, futurismo e romanticismo
Gli anni 80 furono un campo di battaglia tra avanguardia e intrattenimento, sperimentazione e successo. Il post-punk, da cui i Duran provenivano, era tutto fuorché monolitico: poteva contenere le ombre dei Joy Division, gli occhi bistrati di Robert Smith ma anche il glamour visionario dei Nostri. Altrove lo si capì, qui no. In Italia si impose una lettura semplicistica e divisiva, con lo spartiacque tra “autentico” e “commerciale” a dettare legge. Eppure, gli anni 80 non erano solo spalline e synth, ma surrealismo, futurismo e romanticismo. Esattamente ciò che i Duran Duran incarnavano.

4. Lo snobismo italiano e il fraintendimento della New Wave
In Italia, più che altrove, la New Wave è diventata un terreno di giudizi sommari. Troppo spesso ridotta a un canone rigido, dove il confine tra ciò che è accettabile e ciò che non lo è lo decidono le élite del gusto. Eppure, prima ancora di scalare le classifiche, i Duran si muovevano in ambienti tutt’altro che commerciali. I loro primi dischi nascevano in un contesto credibile, tra club underground e produzioni perfettamente incastonate in quel momento musicale, in bilico tra post-punk, funk ed elettronica. L’attitudine era quella giusta, la spinta creativa anche.

5. L’élite del gusto: chi sono questi loschi figuri?
Ma chi sono questi sacerdoti del vero gusto? Ve lo dico io. Da anni infestano l’ambiente, si muovono sinuosi, convinti di essere gli unici custodi della verità. Un giorno musicisti, l’altro giornalisti, a tratti pure DJ. Non sono persone, ma personaggi dagli outfit impeccabili. Avrebbero voluto essere Simon Le Bon, “avrebbero voluto… sposarlo” (ma non lo ammetteranno mai). Scrutano, giudicano, pontificano. E soprattutto, sono consumati dall’invidia. Li si sopporta, sapendo che questo ambito, per fortuna, è anche molto altro. C’è chi vive la musica con passione autentica, senza bisogno di atteggiarsi, dove il confronto è scoperta, non esibizione di superiorità.

6. Non i Japan, ma Bowie, Roxy Music e Neu!
Concentriamoci sulle influenze che hanno orientato i Nostri. I Japan? Certo, hanno lasciato un’impronta, ma il cuore del suono dei Duran Duran batte altrove. Nell’art rock di Bowie, nel glamour sofisticato dei Roxy Music, nelle trame ipnotiche dei Neu! Basta ascoltare Hero per ritrovare lo stesso incedere di Careless Memories. Tutto qui? Affatto. Giancarlo afferma: “La loro cifra stilistica nasce dall’incrocio con la “New York alcolica” e così il post-punk “fa match” con il funk degli Chic, la disco di Moroder e il rock di Lou Reed”. Quanto basta per creare un sound che non è mai stato solo estetica, ma tensione, movimento, evoluzione.

7. L’estetica decadente dei videoclip
I loro video non sono semplice ostentazioni lussuose, ma evocazioni di mondi immaginari. La barca di Rio non è uno yacht, ma una vela, simbolo di evasione e sogno. Save a Prayer non esalta l’edonismo, ma invita a vivere il momento, in un’epoca segnata dalla Guerra Fredda e dall’incertezza sul futuro. C’è un’estetica decadente e cinematografica che permea ogni loro clip, un immaginario costruito con cura, tra riferimenti pittorici, scenari esotici e un senso di inquietudine sotto la superficie.

8. Le collaborazioni con i giganti della musica
Ricchissimo il parterre di ospiti illustri con cui hanno intrecciato gli intenti. Parlo di una band che ha saputo dialogare con alcune delle menti più influenti della musica: Lou Reed, Nile Rodgers, Robert Palmer, Giorgio Moroder, John Frusciante, Mark Ronson, Timbaland, Graham Coxon e persino David Lynch. Collaborazioni che raccontano una storia ben diversa da quella che certi schemi vorrebbero imporre.

9. Aneddoti
Grazie ad amici, mi sono ritrovato spesso dietro le quinte di grandi concerti. Anche quella sera, giugno 2005, Forum di Assago, concerto dei Duran Duran. Nel backstage, post live: Nick Rhodes simpatico e ospitale, John Taylor stanco ma ancora più figo da vicino, Simon Le Bon incancrenito, convinto che volessi fotografarlo. Il mio obiettivo era un altro. Mi avvicino a John, brindiamo al concerto e, senza troppi giri di parole, gli chiedo: “Se chiamassi una mia amica, le diresti ciao?”. Sbuffa, sorride: “Dai, chiamala”. “Michi, scusa l’orario… – Sei matto? È quasi l’una di lunedì! – Ti passo una persona”. “Hi Michi, I’m John Taylor”. Dieci minuti di chiacchiere. John si divertiva, io incredulo. Lei… non ha dormito una settimana. E ancora oggi, mi ringrazia.

Ti lascio con la consueta playlist dedicata che chiude i miei articoli. Ti invito a commentare qui, oppure nel mio canale Facebook.

Buon ascolto!

9 canzoni 9 … dei Duran Duran

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