Con l’intenzione di garantire maggiore trasparenza sulla situazione dei Paesi inclusi o da includere nell’elenco di quelli “di origine sicuri” il governo si è impegnato a relazionare al Parlamento “entro il 15 gennaio di ciascun anno“. Lo ha scritto nel decreto 158/2024, poi confluito nel dl flussi convertito in legge a dicembre. Impegno ancor più necessario visto che l’elenco è al centro della querelle giuridica che ha bloccato i centri in Albania, dove ancora il 28 gennaio scorso il governo ha mandato una cinquantina di migranti, per lo più provenienti da Egitto e Bangladesh. Al contrario, a un mese dalla scadenza fissata nel suo stesso decreto, non c’è traccia della relazione “alle competenti commissioni parlamentari”.

Dopo i primi trattenimenti in Albania bocciati dai giudici, che avevano disapplicato l’elenco dei Paesi sicuri contenuto nel decreto interministeriale del maggio 2024, il governo ha tentato di blindare la nuova lista dei Paesi sicuri in un atto legislativo, il decreto 158 del 23 ottobre. Esaminando il decreto, il Comitato per la legislazione del Senato avvertiva che la modifica “oltre a non incidere sull’obbligo del giudice nazionale di disapplicare la disposizione nazionale in contrasto con il diritto dell’Unione, rischia di avere un impatto negativo in termini di incremento del contenzioso“. Così è stato: i nuovi trattenimenti in Albania, come quelli disposti in Italia per lo stesso esame accelerato delle domande d’asilo di migranti provenienti da Paesi “sicuri”, sono stati tutti rinviati alla Corte di giustizia europea, che ha fissato l’udienza il 25 febbraio e deciderà a primavera.

Sulle valutazioni alla base del nuovo elenco, il Parlamento avrebbe dovuto essere informato a metà gennaio. E infatti i ministeri si erano subito dati da fare. Lo aveva spiegato in commissione Affari costituzionali alla Camera Stefano Soliman, capo dell’Ufficio legislativo del ministero degli Esteri, lo scorso 5 novembre. Confermava l’impegno del decreto ad “aumentare la trasparenza delle valutazioni e questo proprio per la trasmissione al Parlamento delle relazioni, che è un po’ la chiave di volta di questa più accentuata trasparenza”. E chiariva che il lavoro di revisione dell’elenco “è già in piedi e stiamo appunto lavorando” con il coinvolgimento dei ministeri dell’Interno e della Giustizia. Ma a più di tre mesi il lavoro non è ancora finito. Tanto che ad oggi, il giudice obbligato dalle norme Ue a verificare la legittimità dell’inserimento di un Paese nell’elenco di quelli sicuri non ha elementi, come i tribunali hanno evidenziato nei rinvii alla Corte di giustizia, chiedendo se la mancanza sia compatibile con la normativa europea.

Questo non ha impedito al governo di mandare altre persone in Albania sulla base di un elenco ancora privo di valutazioni aggiornate. Né di continuare a trattenere, anche in Italia, richiedenti le cui domande d’asilo vengono esaminate e respinte in modo sommario sulla base di scelte ancora da definire. Lo conferma il Viminale ancora il 22 gennaio scorso, rispondendo all’interrogazione del segretario di +Europa, Riccardo Magi. “Gli approfondimenti necessari all’aggiornamento dell’elenco dei Paesi di origine sicuri sono in corso e la Relazione è in via di definizione”, ha scritto il ministero di Piantedosi. Come mai? “Vista l’articolata istruttoria e la delicatezza delle valutazioni da effettuare, il Governo sta approfondendo in modo accurato ogni informazione disponibile sulla situazione dei Paesi inclusi nell’elenco vigente e di quelli eventualmente da ricomprendere”. Insomma, sui Paesi che considerano sicuri non sono ancora tanto sicuri. E prendono tempo, dice Magi, con una risposta “imbarazzata e imbarazzante”.

Se non altro, sforando il termine del 15 gennaio il governo potrà leggersi i rapporti aggiornati che Human Rights Watch ha pubblicato il 16 gennaio. Come dice la Farnesina, è il genere di fonti che costituiscono “elemento decisivo” nella valutazione dei Paesi. Secondo HRW, il governo egiziano di Abdel Fattah al-Sisi continua a esercitare una repressione generalizzata, detenendo e punendo sistematicamente critici e attivisti, anche durante manifestazioni di solidarietà con la Palestina, criminalizzando di fatto il dissenso pacifico. Detenzioni in condizioni terribili e processi ingiusti a fronte di una nuova bozza di legge che minerebbe ulteriormente il diritto a giudizi equi e rafforzerebbe i funzionari che commettono abusi. Così in Bangladesh: repressione politica, violenza contro le minoranze e debolezze del sistema giudiziario. Quanto alla Tunisia, partner del governo italiano nella lotta all’immigrazione irregolare, HRW e altre organizzazioni segnalano un peggioramento: violazioni dei diritti umani, repressione del dissenso, abusi contro migranti e rifugiati, minaccia all’indipendenza della magistratura, torture e maltrattamenti. Per mantenere questi e altri Paesi nel suo elenco, il governo dovrà dichiarare che non ci sono “generalmente e costantemente persecuzioni” o “tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante”, come dice la direttiva Ue 32 del 2013. E come dice la Corte di giustizia, i giudici saranno comunque costretti a verificare che le cose stanno davvero così.

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